L’Iliade tratta già di tutto e tutti gli scrittori
successivi hanno dovuto fare riferimento a Omero. Considerando che stiamo
parlando di un’opera di tremila anni fa, non possiamo fare altro che inchinarci
rispettosi e giudicarla come un capolavoro difficilmente superabile. Almeno nel
suo genere. Certo, talvolta sono presenti delle ripetizioni o delle lungaggini
ma sono piccole cose in confronto a tutto il resto e poi quale autore
successivo può considerarsi completamente esente da questo difetto? E poi chi
era Omero? È esistito Omero? Nessuno lo può dire. La spiegazione più probabile
è che la storia si sia tramandata oralmente da un cantore all’altro e quindi
ognuno avrà sicuramente aver aggiunto qualcosa di suo.
Vediamo però ora qualcosa dell’Iliade,
cominciando dal suo inizio. Esso è, a dir poco, fulminante. Con rara e mirabile
sintesi il poeta ci dice cosa ci racconterà e ci catapulta direttamente nel
vivo dell’azione. Sono versi arcinoti che molti di noi hanno studiato a memoria
da ragazzi e che erano ripetuti come se fossero stati una cantilena.
Rileggiamoli ora, guardandoli con altro sguardo.
Cantami, o Diva,
del Pelìde Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille.
E qual de' numi inimicolli? Il figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente perìa: colpa d'Atride
che fece a Crise sacerdote oltraggio.
Spero che chiunque leggerà le mie divagazioni,
concordi con me nel considerare questo inizio veramente eccezionale. Omero,
inoltre, trattando delle imprese eroiche dei suoi personaggi indaga a fondo
nell’animo umano descrivendo tutte le passioni e le sfumature dei nostri
sentimenti. E gli Dei di Omero? Essi
sono semplicemente degli umani immortali e quindi soggetti ad amori profondi, a
ira, a dolore, a simpatie e preferenze e si appassionano nel seguire le imprese
degli uomini nelle quali, spesso e volentieri, intervengono condizionandone il
risultato. Veramente potremmo dire che si comportano come tifosi di una squadra
calcistica. In definitiva, questi Dei così umani sono veramente simpatici,
anche se possono talvolta essere severi e malevoli. Certo, sono molto diversi
dal Dio degli ebrei solo desideroso di
adorazione e terribile nello stabilire leggi e comportamenti, ma sanno anche
essere autoritari e molto severi. Soprattutto mi riferisco al più importante
degli Dei, Zeus.
Vediamo con quale violenza minaccia tutti gli abitanti
dell’Olimpo nel libro ottavo.
Già spiegava l'aurora il croceo velo
sul volto della terra, e co' Celesti
Zeus di Smyrne (scoperto nel 1680) |
tenea consiglio. Ei parla, e riverenti
stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite
tutti, ed abbiate il mio voler palese;
e nessuno di voi né Dio né Diva
di frangere s'ardisca il mio decreto,
ma tutti insieme il secondate, ond'io
l'opra, che penso, a presto fin conduca.
Qualunque degli Dei vedrò furtivo
partir dal cielo, e scendere a soccorso
de' Troiani o de' Greci, egli all'Olimpo
di turpe piaga tornerassi offeso;
o l'afferrando di mia mano io stesso,
nel Tartaro remoto e tenebroso
lo gitterò, voragine profonda
che di bronzo ha la soglia e ferree porte,
e tanto in giù nell'Orco s'inabissa,
quanto va lungi dalla terra il cielo.
Allor saprà che degli Dei son io
il più possente. E vuolsene la prova?
D'oro al cielo appendete una catena,
e tutti a questa v'attaccate, o Divi
e voi Dive, e traete. E non per questo
dal ciel trarrete in terra il sommo Giove,
supremo senno, né pur tutte oprando
le vostre posse. Ma ben io, se il voglio,
la trarrò colla terra e il mar sospeso:
indi alla vetta dell'immoto Olimpo
annoderò la gran catena, ed alto
tutte da quella penderan le cose.
Cotanto il mio poter vince de' numi
le forze e de' mortai.
[...]
In altre occasioni, però, dà prova di giudizio
e clemenza come si evince da una disputa coniugale con Era nel libro quarto.
[...]
Strinser, fremendo a questo dir, le labbia
Giuno e Minerva, che vicin sedute
venìan de' Teucri macchinando il danno.
Quantunque al padre fieramente irata
tacque Minerva e non fiatò. Ma l'ira
non contenne Giunone, e sì rispose:
Acerbo Dio, che parli? A far di tante
armate genti accolta, alla ruïna
di Priamo e de' suoi figli, ho stanchi i miei
de' miei sudori il frutto? Eh ben t'appaga;
ma di noi tutti non sperar l'assenso.
Feroce Diva, replicò sdegnoso
l'adunator de' nembi, e che ti fêro,
e Priamo e i Priamìdi, onde tu debba
voler sempre di Troia il giorno estremo?
La tua rabbia non fia dunque satolla
se non atterri d'Ilïon le porte,
e sull'infrante mura non ti bevi
del re misero il sangue e de' suoi figli
e di tutti i Troiani? Or su, fa come
più ti talenta, onde fra noi sorgente
d'acerbe risse in avvenir non sia
questo dissidio: ma riponi in petto
le mie parole. Se desìo me pure
prenderà d'atterrar qualche a te cara
città, non porre a' miei disdegni inciampo,
e liberi li lascia.
[...]
E gli eroi? (continua….)
ciò tutto che
dicesti a me pur anco
tristissima ti
reco, e che nol fosse
[...]
or non avresti
pel morir d'un figlio
Ma mettiamo da parte gli Dei e passiamo agli eroi. L’eroe che
predomina nell’Iliade, al contrario di quello che si può pensare, è Ettore.
Egli al contrario di Achille è un vero eroe, un trascinatore di eserciti, un
formidabile combattente senza paura che anche se talvolta viene aiutato da
Apollo che lo protegge risulta essere invincibile. Invincibile per capacità
proprie e non come Achille invincibile perché quasi immortale con la promessa
divina di ottenere gloria. A tutti gli effetti Ettore è un uomo a tutto tondo:
egli combatte per la sua patria, onora sia gli Dei che il vecchio padre, si
immola per dignità ed un marito e un padre affettuoso. Uno dei migliori passi
dell’Iliade è quello che ci regala la descrizione dell’incontro amorevole di
Ettore con la moglie Andromaca ed il figlio ancora bambino Astianatte nel libro
sesto.
Or mi resti tu solo, Ettore caro,
tu padre mio, tu madre, tu fratello,
tu florido marito. Abbi deh! dunque
di me pietade, e qui rimanti meco
a questa torre, né voler che sia
vedova la consorte, orfano il figlio.
[…]
Dolce consorte, le rispose Ettorre,
Museo archeologico nazionale Palazzo Jatta, Ruvo di Puglia (Bari). |
ange il pensier; ma de' Troiani io temo
fortemente lo spregio, e dell'altere
Troiane donne, se guerrier codardo
mi tenessi in disparte, e della pugna
evitassi i cimenti. Ah nol consente,
no, questo cor. Da lungo tempo appresi
ad esser forte, ed a volar tra' primi
negli acerbi conflitti alla tutela
della paterna gloria e della mia.
Giorno verrà, presago il cor mel dice,
verrà giorno che il sacro iliaco muro
e Priamo e tutta la sua gente cada.
Ma né de' Teucri il rio dolor, né quello
d'Ecuba stessa, né del padre antico,
né de' fratei, che molti e valorosi
sotto il ferro nemico nella polve
cadran distesi, non mi accora, o donna,
sì di questi il dolor, quanto il crudele
tuo destino, se fia che qualche Acheo,
del sangue ancor de' tuoi lordo l'usbergo,
lagrimosa ti tragga in servitude.
[…]
ch'io di te schiava i lai pietosi intenda.
Così detto, distese al caro figlio
l'aperte braccia. Acuto mise un grido
il bambinello, e declinato il volto,
tutto il nascose alla nudrice in seno,
dalle fiere atterrito armi paterne,
e dal cimiero che di chiome equine
alto su l'elmo orribilmente ondeggia.
Sorrise il genitor, sorrise anch'ella
la veneranda madre; e dalla fronte
l'intenerito eroe tosto si tolse
l'elmo, e raggiante sul terren lo pose.
Indi baciato con immenso affetto,
e dolcemente tra le mani alquanto
palleggiato l'infante, alzollo al cielo,
e supplice sclamò: Giove pietoso
e voi tutti, o Celesti, ah concedete
che di me degno un dì questo mio figlio
sia splendor della patria, e de' Troiani
forte e possente regnator. Deh fate
che il veggendo tornar dalla battaglia
dell'armi onusto de' nemici uccisi,
dica talun: Non fu sì forte il padre:
E il cor materno nell'udirlo esulti.
Così dicendo, in braccio alla diletta
sposa egli cesse il pargoletto; ed ella
con un misto di pianti almo sorriso
lo si raccolse all'odoroso seno.
Di secreta pietà l'alma percosso
riguardolla il marito, e colla mano
accarezzando la dolente: Oh! disse,
diletta mia, ti prego; oltre misura
non attristarti a mia cagion. Nessuno,
se il mio punto fatal non giunse ancora,
spingerammi a Pluton: ma nullo al mondo,
sia vil, sia forte, si sottragge al fato.
[…]
Come si è potuto verificare, tramite i versi appena letti, Omero è
in grado di descrivere anche episodi di grande sentimento. L’Iliade però è un
racconto di guerra, di battaglie, di scontri a corpo a corpo e di questi sono
veramente ricchi molti dei libri centrali. L’eroe più forte degli Achei è
naturalmente Achille, ma questo, essendo fortemente adirato per un torto subìto
da parte di Agamennone capo supremo di tutta la compagine greca, si rifiuta di
combattere e lascia che Ettore, trascinando i troiani addirittura fin nel campo
acheo, raccolga importanti vittorie.
Una delegazione di autorevoli greci sarà inviata ad Achille,
capitanata dall’astuto Odisseo, promettendo forti ricompense e la restituzione
della fanciulla Briseide tolta ingiustamente al Pelide e per la quale era
insorta l’aspra contesa. Achille,
però, è irremovibile permettendo così che i troiani continuino le loro vittoriose
e sanguinose imprese. La situazione si sbloccherà soltanto quando Patroclo,
sceso in campo con le armi dell’amato amico Achille, sarà ucciso.
Leggiamo questo brano estratto dal libro
sedicesimo.
Leggiamo questo brano estratto dal libro sedicesimo.
[…]
Ed Ettore, veduto il suo nemico
retrocedente e già di piaga offeso,
tra le file vicino gli si strinse,
nell'imo casso immerse l'asta e tutta
dall'altra parte riuscir la fece.
Risonò nel cadere, ed un gran lutto
per l'esercito achivo si diffuse.
Come quando un lione alla montagna
cinghial di forze smisurate assalta,
e l'uno e l'altro di gran cor fan lite
d'una povera fonte, al cui zampillo
venìano entrambi ad ammorzar la sete;
alfin la belva dai robusti artigli
stende anelo il nemico in su l'arena:
tal di Menèzio al generoso figlio
de' Teucri struggitor tolse la vita
il troian duce, e al moribondo eroe
orgoglioso insultando, Ecco, dicea,
ecco, o Patròclo, la città che dianzi
atterrar ti credesti, ecco le donne
che ti sperasti di condur captive
alla paterna Ftia. Folle! e non sai
che a difesa di queste anco i cavalli
d'Ettòr son pronti a guerreggiar co' piedi?
E che fra' Teucri bellicosi io stesso
non vil guerriero maneggiar so l'asta,
e preservarli da servil catena?
Tu frattanto qui statti orrido pasto
d'avoltoi. Che ti valse, o sventurato,
quel tuo sì forte Achille? Ei molti avvisi
ti diè certo al partire: O cavaliero
caro Patròclo, non mi far ritorno
alle navi se pria dell'omicida
Ettòr sul petto non avrai spezzato
il sanguinoso usbergo... Ei certo il disse,
e a te, stolto che fosti! il persuase.
E a lui così l'eroe languente: Or puoi
menar gran vampo, Ettorre, or che ti diero
di mia morte la palma Apollo e Giove.
Essi, non tu, m'han domo; essi m'han tratto
l'armi di dosso. Se pur venti a fronte
tuoi pari in campo mi venìan, qui tutti
questo braccio gli avrìa prostrati e spenti.
Ma me per rio destin qui Febo uccide
fra gl'Immortali, e tra' mortali Euforbo,
tu terzo mi dispogli. Or io vo' dirti
cosa che in mente collocar ben devi:
breve corso a te pur resta di vita:
già t'incalza la Parca, e tu cadrai
sotto la destra dell'invitto Achille.
Disse e spirò. Disciolta dalle membra
scese l'alma a Pluton la sua piangendo
sorte infelice e la perduta insieme
fortezza e gioventù. Sovra l'estinto
arrestatosi Ettorre, A che mi vai
profetando, dicea, morte funesta?
Chi sa che questo della bella Teti
vantato figlio, questo Achille a Dite
colto dall'asta mia non mi preceda?
Così dicendo, lo calcò d'un piede,
gli svelse il telo dalla piaga, e lungi
lui supino gittò. Poi ratto addosso
all'auriga d'Achille si disserra,
di ferirlo bramoso. Invan; ché altrove
gl'immortali sel portano corsieri,
che in bel dono a Pelèo diero gli Dei.
[…]
Questa morte procurerà un tale dolore ad Achille che questi, con
nuove armi costruite per lui dal dio Vulcano su richiesta della divina madre
Teti, scenderà di nuovo in campo facendo strage di troiani e segnando così la
fine di Ettore.
Sulla morte di Patroclo e la conseguente disperazione di Achille, però,
occorre spendere qualche parola. Generalmente e da molto tempo si pensa che
questo dolore disperato sia esagerato per la morte di un amico anche se molto
caro. Qual è il vero rapporto tra i due eroi e perché si fa esplicitamente
menzione nei commenti anche di fonti autorevoli antiche e moderne di relazione
omosessuale?
Leggendo i versi di Vincenzo Monti, probabilmente addolciti dal
pensiero e dalla morale dell’epoca, a mio parere non si evince una relazione
così intima. Certamente Achille è addolorato al massimo e molto più che in
altre occasioni, è furibondo e non pensa ad altro che a una vendetta efferata,
ma da qui a definire i due come amanti ci corre molta strada.
D’altra parte nella Grecia antica rapporti sessuali di questo tipo
rientravano nella consuetudine e nella cultura dell’epoca, soprattutto se i
rapporti erano tra maestro e discepolo, quella che si definiva pederastia
pedagogica esercitata tramite sesso intercrurale.
Vediamo come Monti descrive la scena
della notizia della morte di Patroclo.
[…]
Ohimè! gli disse,
magnanimo Pelìde; una novella
Patroclo (J. L. David 1790) |
oh piacesse agli Dei! Giace Patròclo;
sul cadavere nudo si combatte;
nudo; ché l'armi n'ha rapito Ettorre.
Una negra a que' detti il ricoperse
nube di duol; con ambedue le pugna
la cenere afferrò, giù per la testa
la sparse, e tutto ne bruttò il bel volto
e la veste odorosa. Ei col gran corpo
in grande spazio nella polve steso
giacea turbando colle man le chiome
e stracciandole a ciocche. Al suo lamento
accorsero d'Achille e di Patròclo
l'addolorate ancelle, e con alti urli
si fêr dintorno al bellicoso eroe
percotendosi il seno, e ciascheduna
sentìa mancarsi le ginocchia e il core.
Dall'altra parte Antìloco pietoso
lagrimando dirotto, e di cordoglio
spezzato il petto rattenea d'Achille
le terribili mani, onde col ferro
non si squarciasse per furor la gola.[...]
Con un forte sospir rispose Achille:
O madre mia, ben Giove a me compiacque
ogni preghiera: ma di ciò qual dolce
me ne procede, se il diletto amico,
se Pàtroclo è già spento? Io lo pregiava
sovra tutti i compagni; io di me stesso
al par l'amava, ahi lasso! e l'ho perduto.
L'uccise Ettorre, e lo spogliò dell'armi,
di quelle grandi e belle armi, a vedersi
maravigliose, che gli eterni Dei,
dono illustre, a Pelèo diero quel giorno
che te nel letto d'un mortal locaro.
Oh fossi tu dell'Oceàn rimasta
fra le divine abitatrici, e stretto
Pelèo si fosse a una mortal consorte!
Ché d'infinita angoscia il cor trafitto
Achille piange sulla salma di Patroclo |
che alle tue braccia nel paterno tetto
non tornerà più mai, poiché il dolore
né la vita né d'uom più mi consente
la presenza soffrir, se prima Ettorre
dalla mia lancia non cade trafitto,
e di Patròclo non mi paga il fio.
[…]
Tre volte Achille
dalla fossa gridò: tre volte i Teucri
e i collegati sgominârsi, e dodici
de' più prestanti fra i riversi cocchi
trafitti vi perîr dal proprio ferro.
Pronti intanto gli Achei di sotto ai densi
strali sottratto di Menèzio il figlio,
il locâr nella bara, e gli fêr cerchio
lagrimando i compagni. Anch'ei veloce
v'accorse Achille, e si disciolse in pianto
nel feretro mirando il fido amico
d'acuta lancia trapassato il petto.
Egli stesso con carri, armi e destrieri
l'avea spedito alla battaglia, e freddo
lo rïebbe al ritorno e sanguinoso.
[…]
Lo scudo di Achille
Può sembrare strano che ci si soffermi a parlare dello scudo di
Achille. Questo però non è uno scudo qualsiasi ma è costruito dal Dio Vulcano appositamente
per il grande eroe. Veramente tutta l’armatura è costruita in ugual modo ma
Omero si sofferma a descrivere le raffigurazioni scolpite nello scudo.
La descrizione che ne fa è molto lunga, sicuramente più di
centocinquanta versi, ma è particolarmente importante e inoltre piacevole a
leggersi, almeno se si è interessati alla conoscenza della società Achea di
quella primitiva età (circa tremila anni a.C.).
Qui Omero, con mirabile arte e dovizia di particolari, ci
trasporta nella cultura dell’epoca parlandoci di astronomia, di città in guerra,
di città in tempo di pace con descrizione di un matrimonio e di un processo, di
agricoltura, di pastorizia, insomma del modo di vivere dell’epoca. Il tutto è
racchiuso dalla rappresentazione del gran fiume Oceano che circonda la Terra.
Leggiamo, sempre dal libro decimottavo, alcuni estratti della
rappresentazione dello scudo di Achille.
[…]
Cinque dell'ampio scudo eran le zone,
d'ammiranda scultura avea ripieni.
Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo
e il Sole infaticabile, e la tonda
Luna, e gli astri diversi onde sfavilla
incoronata la celeste volta,
e le Pleiadi, e l'Iadi, e la stella
d'Orïon tempestosa, e la grand'Orsa
che pur Plaustro si noma. Intorno al polo
ella si gira ed Orïon riguarda,
dai lavacri del mar sola divisa.
Ivi inoltre scolpite avea due belle
popolose città. Vedi nell'una
conviti e nozze. Delle tede al chiaro
per le contrade ne venìan condotte
dal talamo le spose, e Imene, Imene
con molti s'intonava inni festivi.
Menan carole i giovinetti in giro
dai flauti accompagnate e dalle cetre,
mentre le donne sulla soglia ritte
stan la pompa a guardar maravigliose.
D'altra parte nel fôro una gran turba
convenir si vedea. Quivi contesa
era insorta fra due che d'un ucciso
piativano la multa. Un la mercede
già pagata asserìa; l'altro negava.
Finir davanti a un arbitro la lite
chiedeano entrambi, e i testimon produrre.
In due parti diviso era il favore
del popolo fremente, e i banditori
sedavano il tumulto. In sacro circo
sedeansi i padri su polite pietre,
e dalla mano degli araldi preso
il suo scettro ciascun, con questo in pugno
sorgeano, e l'uno dopo l'altro in piedi
lor sentenza dicean. Doppio talento
d'auro è nel mezzo da largirsi a quello
che più diritta sua ragion dimostri.
Era l'altra città dalle fulgenti
armi ristretta di due campi in due
parer divisi, o di spianar del tutto
l'opulento castello, o che di quante
son là dentro ricchezze in due partito
sia l'ammasso. I rinchiusi alla chiamata
non obbedìan per anco, e ad un agguato
armavansi di cheto. In su le mura
le care spose, i fanciulletti e i vegli
fan custodia e corona; e quelli intanto
taciturni s'avanzano.
[…]
Vi sculse poscia un morbido maggese
spazïoso, ubertoso e che tre volte
del vomero la piaga avea sentito.
Molti aratori lo venìan solcando,
e sotto il giogo in questa parte e in quella
stimolando i giovenchi. E come al capo
giungean del solco, un uom che giva in volta,
lor ponea nelle man spumante un nappo
di dolcissimo bacco; e quei tornando
ristorati al lavor, l'almo terreno
fendean, bramosi di finirlo tutto.
[…]
Seguìa quindi un vigneto oppresso e curvo
sotto il carco dell'uva. Il tralcio è d'oro,
nero il racemo, ed un filar prolisso
d'argentei pali sostenea le viti.
Lo circondava una cerulea fossa
e di stagno una siepe. Un sentier solo
al vendemmiante ne schiudea l'ingresso.
Allegri giovinetti e verginelle
portano ne' canestri il dolce frutto,
e fra loro un garzon tocca la cetra
soavemente. La percossa corda
con sottil voce rispondeagli, e quelli
con tripudio di piedi sufolando
e canticchiando ne seguìano il suono.
[…]
Poi vi sculse una danza a quella eguale
che ad Arïanna dalle belle trecce
nell'ampia Creta Dedalo compose.
V'erano garzoncelli e verginette
di bellissimo corpo, che saltando
teneansi al carpo delle palme avvinti.
Queste un velo sottil, quelli un farsetto
ben tessuto vestìa, soavemente
lustro qual bacca di palladia fronda.
Portano queste al crin belle ghirlande,
quelli aurato trafiere al fianco appeso
da cintola d'argento. Ed or leggieri
danzano in tondo con maestri passi,
come rapida ruota che seduto
al mobil torno il vasellier rivolve,
or si spiegano in file. Numerosa
stava la turba a riguardar le belle
carole, e in cor godea. Finìan la danza
tre saltator che in varii caracolli
rotavansi, intonando una canzona.
Il gran fiume Oceàn l'orlo chiudea
dell'ammirando scudo.
Con il riferimento al fiume Oceano che circonda le terre emerse,
si chiude la rappresentazione della struttura dello scudo di Achille. Per
brevità ho omesso diverse parti ma tutte presentano immagini ispirate al sapere
e alla società dell’epoca. Tutto descritto poeticamente e con mirabili
rappresentazioni. La lettura della composizione dello scudo, anche se lunga,
non stanca mai. Sempre sono presentate nuove figurazioni e tutte riescono a
farci vedere, come se fossero in un film, delle scene di tremila anni fa. La
modernità della struttura del racconto è poi, almeno a parer mio, veramente
inaspettata e per questo quasi sconvolgente.
Ma torniamo alla storia.
Il Dio Vulcano ha costruito per Achille un’armatura eccezionale di
estrema bellezza e solidità: il suo peso è tale che solo un eroe della forza
del Pelìde può sopportare. E ora non manca nulla affinché Achille possa portare
a compiutezza il proprio proposito: vendicare il caro amico Patroclo uccidendo
colui che è stato la causa della sua morte. Ira e dolore non potranno placarsi
fin quando Ettore non sarà ucciso e, dopo aver fatto scempio del suo cadavere,
lasciarlo in pasto ai cani e ai corvi.
Ettore è consapevole che non potrà mai combattere con Achille ma,
malgrado gli avvertimenti e i lamenti dei famigliari, scende comunque in campo.
Non sa ancora che dovrà vedersela con il Pelide rientrato in forze con
l’esercito Acheo ma anche se lo sapesse, non può tirarsi indietro: lui è il più
grande dei combattenti troiani e il senso dell’onore, dell’amor patrio, della
fierezza di guerriero e della lealtà gli impongono di affrontare il proprio destino,
anche se le Moire spietate gli sono a fianco. Suo malgrado, nel momento in cui
si trova faccia a faccia con il nemico, vedendone la possanza, viene colto da
paura e fugge girando per ben tre volte intorno alle mura della città inseguito
da Achille. Ma poi si ferma e trova il coraggio di affrontarlo.
Vediamo come Omero ci racconta l’episodio del combattimento tra i
due guerrieri leggendone uno stralcio dal libro ventiduesimo.
Il duello.
[…]
Più non fuggo, o Pelìde. Intorno
all'alte
ilìache mura mi aggirai tre volte,
né aspettarti sostenni. Ora son io
che intrepido t'affronto, e darò
morte,
o l'avrò. Ma gli Dei, fidi custodi
de' giuramenti, testimon ne sièno,
che se Giove l'onor di tua caduta
mi concede, non io sarò spietato
col cadavere tuo, ma renderollo,
toltene solo le bell'armi, intatto
a' tuoi. Tu giura in mio favor lo
stesso.
Non parlarmi d'accordi, abbominato
nemico, ripigliò torvo il Pelìde:
nessuna pace tra l'eterna guerra
dell'agnello e del lupo, e tra noi due
né giuramento né amistà nessuna,
finché l'uno di noi steso col sangue
l'invitto Marte non satolli. Or bada,
ché n'hai mestiero, a richiamar la
tutta
tua prodezza, e a lanciar dritta la
punta.
Ogni scampo è preciso, e già Minerva
per l'asta mia ti doma. Ecco il
momento
che dei morti da te miei cari amici
tutte ad un tempo sconterai le pene.
tale, agitando
l'affilato acciaro,
tutte ad un tempo sconterai le pene.
[…]
È opportuno a questo punto soffermarsi per alcune importanti
considerazioni.
Ettore alla vista di Achille, preso da timore, fugge ma poi, dopo
tre giri interi della città, sempre inseguito, si rassegna: il senso dell’onore
è più forte della paura e decide di fermarsi per affrontare il nemico in duello
a viso aperto, anche se sa quasi con certezza che sarà molto improbabile
uscirne vincitore. Nel discorso che rivolge ad Achille, si evidenzia una
caratteristica fondamentale del pensiero dell’epoca: la morte è ineluttabile,
fa parte della vita e non è tanto essa che incute timore quanto non avere gli
onori che possono tributargli tutti i suoi cari una volta che il suo cadavere,
magari spogliato delle armi prede del vincitore, sia restituito e non lasciato
decomporre o ancor peggio quale orrido pasto di cani e uccelli. Le onoranze
funebri e il rispetto nei confronti del proprio corpo sono più importanti della
morte da cui non ci può sottrarre perché stabilito dal fato.
Achille, però, risponde con furia selvaggia al nemico; per placare
l’ira che prova dopo la morte di Patroclo una sola cosa è consentita: vendicare
il caro amico con l’uccisione di Ettore e lo scempio del suo cadavere. È un
brano questo che oltre che definire il pensiero della remota epoca ci mostra la
forza delle passioni umane anche delle più feroci. Non possono sussistere pietà
e accordo tra loro come non è possibile che sussistano tra un lupo e un
agnello!
[…]
Misero! a morte m'appellâr gli Dei.
Credeami aver Dëìfobo presente;
egli è dentro le mura, e mi deluse
Minerva. Al fianco ho già la morte, e nullo
v'è più scampo per me. Fu cara un tempo
a Giove la mia vita, e al saettante
suo figlio, ed essi mi campâr cortesi
ne' guerrieri perigli. Or mi raggiunse
la negra Parca. Ma non fia per questo
che da codardo io cada: periremo,
ma glorïosi, e alle future genti
qualche bel fatto porterà il mio nome.
Ciò detto, scintillar dalla vagina
fe' la spada che acuta e grande e forte
dal fianco gli pendea. Con questa in pugno
drizza il viso al nemico, e si disserra
com'aquila che d'alto per le fosche
nubi a piombo sul campo si precipita
a ghermir una lepre o un'agnelletta:
si scaglia Ettorre. Scagliasi del pari
gonfio il cor di feroce ira il Pelìde
impetuoso. Gli ricopre il petto
l'ammirando brocchier: sovra il guernito
di quattro coni fulgid'elmo ondeggia
l'aureo pennacchio che Vulcan v'avea
sulla cima diffuso. E qual sfavilla
nei notturni sereni in fra le stelle
Espero il più leggiadro astro del cielo;
tale l'acuta cuspide lampeggia
nella destra d'Achille che l'estremo
danno in cor volge dell'illustre Ettorre,
e tutto con attenti occhi spïando
il bel corpo, pon mente ove al ferire
più spedita è la via. Chiuso il nemico
era tutto nell'armi luminose
che all'ucciso Patròclo avea rapite.
Sol, dove il collo all'omero s'innesta,
nuda una parte della gola appare,
mortalissima parte. A questa Achille
l'asta diresse con furor: la punta
il collo trapassò, ma non offese
della voce le vie, sì che precluso
fosse del tutto alle parole il varco.
Cadde il ferito nella sabbia, e altero
sclamò sovr'esso il feritor divino:
Ettore, il giorno che spogliasti il morto
Patroclo, in salvo ti credesti, e nullo
terror ti prese del lontano Achille.
Stolto! restava sulle navi al mio
trafitto amico un vindice, di molto
più gagliardo di lui: io vi restava,
io che qui ti distesi. Or cani e corvi
te strazieranno turpemente, e quegli
avrà pomposa dagli Achei la tomba.
E a lui così l'eroe languente: Achille,
per la tua vita, per le tue ginoccnia,
per li tuoi genitori io ti scongiuro,
deh non far che di belve io sia pastura
alla presenza degli Achei: ti piaccia
l'oro e il bronzo accettar che il padre mio
e la mia veneranda genitrice
ti daranno in gran copia, e tu lor rendi
questo mio corpo, onde l'onor del rogo
dai Teucri io m'abbia e dalle teucre donne.
Con atroce cipiglio gli rispose
il fiero Achille: Non pregarmi, iniquo,
non supplicarmi né pe' miei ginocchi
né pe' miei genitor. Potessi io preso
dal mio furore minuzzar le tue
carni, ed io stesso, per l'immensa offesa
che mi facesti, divorarle crude.
De Chirico. Duello tra Ettore e Achille |
No, nessun la tua testa al fero morso
de' cani involerà: né s'anco dieci
e venti volte mi s'addoppii il prezzo
del tuo riscatto, né se d'altri doni
mi si faccia promessa, né se Prìamo
a peso d'oro il corpo tuo redima,
no, mai non fia che sul funereo letto
la tua madre ti pianga. Io vo' che tutto
ti squarcino le belve a brano a brano.
Ben lo previdi che pregato indarno
t'avrei, riprese il moribondo Ettorre.
Hai cor di ferro, e lo sapea. Ma bada
che di qualche celeste ira cagione
io non ti sia quel dì che Febo Apollo
e Paride, malgrado il tuo valore,
t'ancideranno su le porte Scee.
Così detto, spirò. Sciolta dal corpo
prese l'alma il suo vol verso l'abisso,
lamentando il suo fato ed il perduto
fior della forte gioventude.
[…]
Ma quale
vano consiglio mi ragiona il core?
Senza pianto sul lido e senza tomba
giace il morto Patròclo. Insin che queste
mie membra animerà soffio di vita,
ei fia presente al mio pensiero; e s'anco
laggiù nell'Orco obblivïon scendesse
della vita primiera, anco nell'Orco
mi seguirà del mio diletto amico
la rimembranza. Or via, dunque si rieda
alle navi, e costui vi si strascini.
E voi frattanto, giovinetti achivi,
intonate il peana: alto è il trionfo
che riportammo: il grande Ettòr, dai Teucri
adorato qual nume, è qui disteso.
Disse, e contra l'estinto opra crudele
meditando, de' piè gli fora i nervi
dal calcagno al tallone, ed un guinzaglio
insertovi bovino, al cocchio il lega,
andar lasciando strascinato a terra
il bel capo. Sul carro indi salito
con l'elevate glorïose spoglie,
stimolò col flagello a tutto corso
i corridori che volâr bramosi.
Lo strascinato cadavere un nembo
sollevava di polve onde la sparta
negra chioma agitata e il volto tutto
bruttavasi, quel volto in pria sì bello,
allor da Giove abbandonato all'ira
degl'inimici nella patria terra.
Franz Matsch. Il trionfo di Achille |
All'atroce spettacolo si svelse
la genitrice i crini, e via gittando
il regal velo, un ululato mise,
che alle stelle n'andò. Plorava il padre
miseramente, e gemiti e singulti
per la città s'udìan, come se tutta
dall'eccelse sue cime arsa cadesse.
[…]
Dalle Tröadi intanto circondata,
in alti lai rompea la madre: Oh figlio!
tu se' morto, ed io vivo? io giunta al sommo
delle sventure te perdendo, ahi lassa!
te che in ogni momento eri la mia
gloria e il sostegno della patria tutta
che t'accogliea qual nume. Ahi! ne saresti,
vivo, il decoro; e ne sei, morto, il lutto.
Seguìa questo parlar di pianto un fiume.
[…]
Così dicendo, della reggia uscìo
qual forsennata, e le tremava il core.
La seguivan le ancelle; e fra le turbe
giunta alla torre, s'arrestò, girando
lo sguardo intorno dalle mura. Il vide,
il riconobbe da corsier veloci
strascinato davanti alla cittade
verso le navi indegnamente. Oscura
notte i rai le coperse, ed ella cadde
all'indietro svenuta. Si scomposero
i leggiadri del capo adornamenti
e nastri e bende e l'intrecciata mitra
e la rete ed il vel che dielle in dono
l'aurea Venere il dì che dalle case
d'Eezïòne Ettòr la si condusse
di molti doni nuzïali ornata.
Affollârsi pietose a lei dintorno
le cognate che smorta tra le braccia
reggean l'afflitta di morir bramosa
per immenso dolor. Come in se stessa
alfin rivenne, e l'alma al cor s'accolse,
fe' degli occhi due fonti, e così disse:
Oh me deserta oh sposo mio! noi dunque
nascemmo entrambi col medesmo fato,
tu nella reggia del tuo padre, ed io
nella tebana Ipòplaco selvosa
seggio d'Eezïón che pargoletta
allevommi, meschino una meschina!
Oh non m'avesse generata! Ai regni
tu di Pluto discendi entro il profondo
sen della terra, e me qui lasci al lutto
vedova in reggia desolata. Intanto
del figlio, ohimè! che fia? Figlio infelice
di miserandi genitor, bambino
egli è del tutto ancor, né tu puoi morto
più farti suo sostegno, Ettore mio,
ned egli il padre vendicar:
[…]
Purtroppo ho dovuto
tagliare molte parti di questo ventiduesimo canto, tutte molto belle e
meritevoli d'attenzione, ma spero che ciò che ho riportato sia sufficiente per
rendersi conto della forza rappresentativa dei versi di Omero e della capacità
di passare da un registro all’altro sempre con grande maestria. Sembra quasi di
assistere a un’opera cinematografica tanto le immagini descritte si stagliano
nella nostra memoria; non per niente dopo tre millenni si continua a
rappresentare il ciclo troiano e gli avvenimenti narrati nell’Iliade.
Nel canto successivo Omero ci descrive quali fossero all’epoca le
modalità funerarie e quanto fossero importanti. La vendetta si è compiuta con
l’uccisione di Ettore, il più valente difensore di Troia, ma il corpo di
Patroclo è ancora insepolto.
Achille sognerà Patroclo e questo gli ricorderà quali sono i
doveri nei suoi confronti consistenti nel donargli onori e una degna sepoltura.
Per questa occorrerà fare un grande rogo bruciando, insieme al suo corpo,
animali tra i migliori e organizzare gare sportive e duelli ai cui vincitori
saranno date in premio armi e altro genere di ricchezze appartenute al defunto.
Sempre nel sogno Patroclo dà le indicazioni per riporre le proprie
ossa in un’urna d’oro, predice ad Achille la sua morte che ormai non è lontana
e manifesta il desiderio che anche le ossa di Achille siano messe nella stessa
urna, in modo di poter essere insieme da morti come lo sono stati da vivi.
È obbligatorio a questo punto fare una riflessione: questa
richiesta è molto importante e non sembra opportuna rivolgerla ad amico anche
se molto caro. Forse si può ipotizzare che proprio questo passo abbia dato
luogo alla considerazione di un rapporto molto stretto tra i due di tipo
omosessuale. Ma ho già espresso precedentemente la mia opinione al riguardo e
forse il modo di essere e di vivere insieme alle passioni erano all’epoca più
intense e non influenzate dalla morale cristiana o religiosa in genere. La
religiosità dei nostri eroi è completamente diversa dal nostro modo di pensare:
gli Dei sono esattamente come gli uomini con le loro debolezze e le loro
trasgressioni anche in campo sessuale.
Tornando alla storia, Achille tenta di abbracciare Patroclo ma
questo si è già trasformato in fumo leggero e naturalmente predisporrà tutto il
necessario per onorare le richieste.
Dopo il rogo sono organizzati i giochi: gare di corsa, di lotta,
di disco, di arco e in premio ai vincitori sono dati armi, schiave, vasi,
corazze, tripodi e animali di vari, il tutto in memoria di Patroclo.
Leggiamo insieme dal libro ventitreesimo dei passi che ritengo
molto rilevanti per la storia ma naturalmente anche molto belli.
[…]
Tu dormi, Achille, né di me più pensi.
Vivo m'amasti, e morto m'abbandoni.
Deh tosto mi sotterra, onde mi sia
dato nell'Orco penetrar. Respinto
io ne son dalle vane ombre defunte,
né meschiarmi con lor di là dal fiume
mi si concede. Vagabondo io quindi
m'aggiro intorno alla magion di Pluto.
Or deh porgi la man, ché teco io pianga
anco una volta: perocché consunto
dalle fiamme del rogo a te dall'Orco
non tornerò più mai. Più non potremo
vivi entrambi, e lontan dagli altri amici
seduti in dolci parlamenti aprire
i segreti del cor: ché preda io sono
della Parca crudele a me nascente
un dì sortita. E a te pur anco, Achille,
a te che un Dio somigli, è destinato
il perir sotto le dardanie mura.
Ben ti prego, o mio caro, e raccomando
che tu non voglia, se mi sei cortese,
dal tuo disgiunto il cener mio.
[…]
... Una
sol'urna
chiuda adunque le nostre ossa, quell'urna
che d'ôr ti diè la tua madre divina.
A che ne vieni, o anima diletta?
gli rispose il Pelìde; e a che m'ingiungi
partitamente queste cose? Io tutto
che comandi farò: ma deh t'appressa,
ch'io t'abbracci, che stretti almen per poco
gustiam la trista voluttà del pianto.
Così dicendo, coll'aperte braccia
amoroso avventossi, e nulla strinse,
ché stridendo calò l'ombra sotterra,
e svanì come fumo.
[…]
Achille porta a compimento tutte le richieste fattegli da Patroclo
in sogno ma poi, ancora non placato nel dolore e non pago della vendetta,
continua a trascinare il corpo di Ettore per ben tre volte intorno al tumolo
che racchiude le ossa dell’amico. La sua intenzione è di lasciarlo senza
sepoltura in pasto alle belve feroci.
Ma questo è possibile che accada per un eroe quale Ettore? Che
cosa fanno gli Dei che sempre prendono parte alle vicende degli uomini
condizionandone i risultati? Le due dee offese e terribili, Era e Atena,
sarebbero pienamente soddisfatte perché ancora ricordano con rabbia la scelta
fatta da Paride di preferire a esse Afrodite, per quanto riguarda la bellezza,
ma non tutti gli Dei sono dello stesso avviso. Per tutte le vicende che si son
svolte sotto le mura di Troia, gli immortali si sono divisi in due fazioni ed
hanno tifato per i propri protetti
spesso intromettendosi a difesa dell’uno o dell’altro. Questo modo di sentire e
di agire degli Dei è una tra le cose più rappresentative dei poemi omerici e dei
miti greci in particolare, è una concezione del divino a misura e a modello
umano che ci fa apprezzarli, amarli ed anche temerli ma che possiamo sentire
sicuramente più vicini.
Apollo che sempre è stato il difensore dei troiani rimprovera il
consesso dei numi di permettere un tale scempio del corpo di Ettore e ottiene
che Achille venga avvisato del desiderio degli dei che il corpo sia restituito
ai famigliari e Priamo indotto a presentarsi nel campo acheo per chiederne la
restituzione. Ed è così che andranno le cose come possiamo leggere nel brano
seguente.
[…]
Stavasi in mezzo il venerando veglio
tutto chiuso nel manto, ed insozzato
il capo e il collo dell'immonda polve
di che bruttato di sua mano ei s'era
sul terren voltolandosi. La turba
delle misere figlie e delle nuore
empiea la reggia d'ululati, e quale
ricordava il fratel, quale il marito,
ché valorosi e molti eran caduti
sotto le lance degli Achei. Comparve
improvvisa davanti al re canuto
la ministra di Giove, e a lui che tutto
al vederla tremò, dicea sommesso:
Prìamo, fa core, né timor ti prenda.
Nunzia di mali non vengh'io, ma tutta
del tuo meglio bramosa. A te mi manda
l'Olimpio Giove che lontano ancora
su te veglia pietoso. Ei ti comanda
di redimere il figlio, e recar molti
doni ad Achille per placarlo. A lui
vanne adunque, ma solo, e che nessuno
t'accompagni de' Troi, salvo un araldo
d'età provetta, reggitor del plaustro
che il corpo trasportar del figlio ucciso
ti dee qua dentro: né temer di morte
o d'altra offesa. Condottiero avrai
l'Argicida che te fino al cospetto
d'Achille scorterà. Lungi l'eroe
dal trucidarti, terrà gli altri a freno.
Ei non è stolto né villan né iniquo,
e benigno farassi a chi lo prega.
[…]
Tolta non era ancor la mensa, e ancora
sedeavi Achille. Il venerando veglio
entrò non visto da veruno, e tosto
fattosi innanzi, tra le man si prese
le ginocchia d'Achille, e singhiozzando
la tremenda baciò destra omicida
che di tanti suoi figli orbo lo fece.
Come avvien talor se un infelice
reo del sangue d'alcun del patrio suolo
fugge in altro paese, e ad un possente
s'appresentando, i riguardanti ingombra
d'improvviso stupor; tale il Pelìde
del dëiforme Prìamo alla vista
stupì. Stupiro e si guardaro in viso
gli altri con muta maraviglia, e allora
il supplice così sciolse la voce:
Divino Achille, ti rammenta il padre,
il padre tuo da ria vecchiezza oppresso
qual io mi sono. Io questo punto ei forse
da' potenti vicini assediato
non ha chi lo soccorra, e all'imminente
periglio il tolga. Nondimeno, udendo
che tu sei vivo, si conforta, e spera
ad ogn'istante riveder tornato
da Troia il figlio suo diletto. Ed io,
miserrimo! io che a tanti e valorosi
figli fui padre, ahi! più nol sono, e parmi
già di tutti esser privo. Di cinquanta
lieto io vivea de' Greci alla venuta.
Dieci e nove di questi eran d'un solo
alvo prodotti; mi venìano gli altri
da diverse consorti, e i più ne spense
l'orrido Marte. Mi restava Ettorre,
l'unico Ettorre, che de' suoi fratelli
e di Troia e di tutti era il sostegno;
e questo pure per le patrie mura
combattendo cadéo dianzi al tuo piede.
Per lui supplice io vegno, ed infiniti
doni ti reco a riscattarlo, Achille!
Thorvaldsen, Bertel
Priamo supplica Achille per la restituzione del corpo di Ettore. 1815
Abbi ai numi rispetto, abbi pietade
di me: ricorda il padre tuo: deh! pensa
ch'io mi sono più misero, io che soffro
disventura che mai altro mortale
non soffrì, supplicante alla mia bocca
la man premendo che i miei figli uccise.
A queste voci intenerito Achille,
membrando il genitor, proruppe in pianto,
e preso il vecchio per la man, scostollo
dolcemente. Piangea questi il perduto
Ettorre ai piè dell'uccisore, e quegli
or il padre, or l'amico, e risonava
di gemiti la stanza. Alfin satollo
di lagrime il Pelìde, e ritornati
tranquilli i sensi, si rizzò dal seggio,
e colla destra sollevò il cadente
veglio, il bianco suo crin commiserando
ed il mento canuto. Indi rispose:
Infelice! per vero alte sventure
il tuo cor tollerò. Come potesti
venir solo alle navi ed al cospetto
dell'uccisore de' tuoi forti figli?
Hai tu di ferro il core? Or via, ti siedi,
e diam tregua a un dolor che più non giova.
[…]
Ho letto, non ricordo dove, che questo libro finale dell’Iliade
non sia originale e aggiunto in un secondo tempo. Naturalmente non è mia
facoltà esprimere un’opinione in merito ma è cosa che non m’interessa: io trovo
che questo canto sia molto bello (anche nelle parti che non ho trascritto) e
non vedo come altrimenti il poeta avrebbe potuto concludere la storia. Ammiro,
inoltre, la sua capacità nel descrivere il tenero episodio con accenti di una
modernità sconcertante. Dopo tante battaglie, tanti episodi cruenti e
descrizioni sanguinarie, Omero ci lascia con immagini di amore e pietà.
Il cadavere di Ettore, ancora intatto per volere degli Dei, viene
restituito al vegliardo che può riportarlo all’interno delle possenti mura di Troia
affinché la famiglia e il popolo tutto possa onorarlo come giustamente si
conviene a un eroe del suo calibro.
E ancora avremo pianti struggenti ed espressioni di dolore e amore
da parte di tutti i troiani.
Dieci giorni di tregua dalle imprese belliche sono stati concessi
ai troiani per i riti funebri ed è con questi accenti che si conclude il poema.
[…]
Come rifulse su la terra il raggio
della decima aurora, lagrimando
Ettore il corpo, e postolo sul rogo,
il foco vi destâr. Rïapparita
la rosea figlia del mattin, s'accolse
il popolo dintorno all'alta pira,
e pria con onde di purpureo vino
tutte estinser le brage. Indi per tutto
queto il foco, i fratelli e i fidi amici
pieni il volto di pianto e sospirosi
raccolsero le bianche ossa, e composte
in urna d'oro le coprîr d'un molle
cremisino. Ciò fatto, in cava buca
le posero, e di spesse e grandi pietre
un lastrico vi fêro, e prestamente
il tumulo elevâr. Le scolte intanto
vigilavan dintorno, onde un ostile
non irrompesse repentino assalto
pria che fosse al suo fin l'opra pietosa.
Innalzato il sepolcro dipartîrsi
tutti in grande frequenza, e nella vasta
di Prïamo adunati eccelsa reggia
funebre celebrâr lauto convito.
Questi furo gli estremi onor renduti
al domatore di cavalli Ettorre.
Il corpo di Ettore riportato a Troia, rilievo su sarcofago romano (180-200 circa). Museo del Louvre |
Cosa possiamo dire ancora sull’Iliade? Niente o tanto di più.
Volete un mio consiglio?
LEGGETELO!
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