Nel momento in cui si decide di parlare dell’Odissea è inevitabile che in primis si faccia un paragone con l’altro poema omerico, l’Iliade.
La prima cosa che viene spontaneo
dire, dato che non sono un addetto ai lavori e faccio delle chiacchiere
sull'epica per il piacere di rileggerla con occhi adulti e in modo completo, è
che ho sempre amato di più l’altro poema. Provo un forte trasporto nei riguardi
dell’Iliade mentre se penso all’Odissea la sensazione è un po’ deludente.
Questa impressione l’ho avuta fin da
quando in giovane età lessi l’opera per studio e ancora rimane inalterata. Ora
sono di nuovo immerso in questa lettura ma devo confessare, però, che essa
procede molto lentamente, causa gli altri blog che intanto ho attivato e il
tempo richiesto dal fatto che i brani riportati del “Seguito dell’Iliade” hanno
avuto bisogno di essere scritti direttamente al pc dato che non si trovano già
pronti e liberi in internet per il solito copia e incolla.
Comunque è possibile che, procedendo
nella lettura, io possa veramente entusiasmarmi per le avventure di Ulisse e
quindi ribaltare anche completamente la prima impressione. Ma perché questo minor
affetto nei confronti dell’Odissea? Analizzando bene la cosa sono arrivato
all’idea che fin dall’inizio rimasi deluso per la struttura dell’opera ma non
tanto per essa stessa quanto per il fatto che la immaginavo diversa.
Credevo di trovarvi un maggior
numero di avventure, duelli e azioni eroiche, conflitti tra gli dei e loro
interventi nelle vicende umane, un po’ come accade nell’Iliade. E invece niente
di tutto ciò o per lo meno il poema è un po’ diverso da quello che mi
aspettavo. Possiamo renderci conto di questo cominciando a considerare il
contenuto sommario dei ventiquattro libri che compongono l’Odissea. Questa
specie di riassunto sarà comunque molto comodo in seguito.
I primi quattro libri costituiscono
quasi una parte a sé stante, un prologo, tanto che è chiamata Telemachia. Vi si
narra il viaggio che compie Telemaco, figlio di Ulisse, alla ricerca di notizie
sul proprio genitore: quasi tutti gli eroi della guerra di Troia son tornati
nelle rispettive dimore dalle proprie famiglie ma non Ulisse del quale non si
conosce la sorte. La reggia paterna è occupata dai Proci che aspirano ad
impadronirsi di Itaca sposando Penelope, la fedele moglie di Ulisse che aspetta
con ansia che il marito ritorni. Naturalmente questa parte, in un certo senso,
è necessaria per interpretare correttamente l’opera; essa appare come un
artificio per mettere il lettore a parte degli avvenimenti accaduti a Troia
dopo i fatti raccontati nell’Iliade. Oppure l’artificio è di natura diversa:
noi aspettiamo l’eroe con ansia ma questi si fa attendere come se fosse una
star teatrale. Questa è un’ipotesi ma potrebbe invece essere che il personaggio
intorno al quale ruota l’intera vicenda è introdotto successivamente, come se
fosse lo strumento musicale principale in un concerto, creando quindi una
voluta attesa nel lettore.
E poi, finalmente, nel quinto libro
viene presentato Ulisse: è prigioniero nell’isola di Ogigia della ninfa Calipso
e da molti anni e piange sconsolato sulla riva del mare. Interviene, però, la
dea tutelare Atena che impone a Calipso di lasciarlo andare fornendolo di una
zattera e di tutto ciò che occorre per poter raggiungere l’isola dei Feaci dove
sarà poi aiutato per il ritorno ad Itaca. Ma se Atena lo protegge, Polifemo lo
detesta e quindi il viaggio sarà funestato da terribili tempeste scatenate dal
dio irato. Atena, però, che è la dea sempre presente in questo poema, lo aiuta
e finalmente Ulisse approderà all’isola dei Feaci, sarà ospitato e infine,
finalmente, l’eroe comincerà a raccontare le proprie peregrinazioni e
avventure. Per chi si dedica alla lettura dell’Odissea è questa la parte di cui
ha sentito favoleggiare e rappresenta la ragione fondamentale per la quale il
poema è famoso.
Il racconto delle peregrinazioni di
Ulisse però inizia solo nel IX libro e nel XII è già concluso. Le vere
avventure di Ulisse e dei suoi compagni per mari tempestosi, con enormi
contrarietà, incontri con esseri fantasiosi e addirittura con una discesa agli
inferi, si riducono ad essere trattate in uno spazio piuttosto modesto rispetto
alla consistenza totale del poema. Questa, per me, fu una grande delusione
perché immaginavo ben altro, forse qualcosa di più eroico simile a quello che
avevo già gustato nell’Iliade.
Nei rimanenti libri, così, tanto per
finire il riassunto, Ulisse giunge finalmente ad Itaca aiutato da Atena che
sempre lo protegge e trasforma per fare in modo che non sia riconosciuto, si
rende conto della situazione in cui versa la sua cara patria e avvengono via
via una serie di riconoscimenti con il fedele cane Argo, il porcaro Eumeo suo
servitore, il figlio, o la nutrice Euriclea che lo riconosce, malgrado sia
sotto diverse sembianze, da una vecchia cicatrice. Naturalmente mantiene ignota
la sua vera identità con i Proci, nei confronti dei quali medita vendetta, e
con l’amata e fedele moglie Penelope. Concordato un piano e sempre con l’aiuto
di Atena, Ulisse riesce a uccidere tutti i pretendenti al trono, mostrando
finalmente il proprio spessore di eroe guerriero e infine si palesa a Penelope
con la quale vi sarà un riconoscimento attraverso un particolare relativo al
loro talamo. Nell’ultimo libro si assiste all’incontro con il vecchio padre
Laerte e un’appendice di vendetta con ulteriore uccisione di nemici fino
all’intervento di Zeus, che irato scaglia un fulmine. Atena, poi, per volere
del divino genitore ristabilisce la pace tra i popoli.
Come si può arguire dal riassunto
fatto, il secondo poema attribuito ad Omero è ben diverso dal primo e forse è
proprio per questo motivo che la questione omerica, dopo secoli di dibattiti, è
ancora in auge, naturalmente tra gli studiosi.
Io, molto
modestamente, riporterò alcune mie idee e come fatto in precedenza presenterò
un certo numero di brani, da me particolarmente amati, nella classica
traduzione di Ippolito Pindemonte.
I primi versi, in cui sono indicate le linee guida del contenuto, sono sempre essenziali.
Musa, quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra
Gittate d'Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr'esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritâro il nume,
Che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh! parte almen di sì ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.
Con la solita mirabile sintesi siamo immediatamente informati su ciò che leggeremo. Nascosta tra le righe, però, c'è una frase che credo sia particolarmente significativa: essa ci fornisce la chiave per interpretare correttamente il testo. Le parole che mi piace sottolineare sono le seguenti: "e delle genti l'indol conobbe".
[…]
Alla spelonca divenuti in breve,
Lui non trovammo, che per l'erte cime
Le pecore lanigere aderbava.
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de' formaggi, e piene
D'agnelli e di capretti eran le stalle:
E i più grandi, i mezzani, i nati appena,
Tutti, come l'etade, avean del pari
Lor propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe
Premer solea delle feconde madri,
Entro il siere nôtavano. Qui forte
I compagni pregavanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti s'adducessero ed agnelli
Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse:
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
E trar doni da lui, che riuscirci
Ospite sì inamabile dovea.
[…]
[…]
[…]
Ulisse sulla riva dell' isola Ogigia dove la Ninfa Calipso lo trattiene per molti anni. Gli promette anche l'immortalità ma lui prova nostalgia dei suoi cari e della sua terra e guarda triste il mare.
I primi versi, in cui sono indicate le linee guida del contenuto, sono sempre essenziali.
Musa, quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra
Gittate d'Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr'esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritâro il nume,
Che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh! parte almen di sì ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.
Con la solita mirabile sintesi siamo immediatamente informati su ciò che leggeremo. Nascosta tra le righe, però, c'è una frase che credo sia particolarmente significativa: essa ci fornisce la chiave per interpretare correttamente il testo. Le parole che mi piace sottolineare sono le seguenti: "e delle genti l'indol conobbe".
Perché ritengo questa frase particolarmente
significativa? Omero sembra avvisarci su ciò di cui ci parlerà e al di là delle
avventure per terre e mari, si soffermerà in particolare sull'indole delle
genti. Per indole, salvo che nel testo originale non s'intenda qualcosa di
completamente diverso, dobbiamo leggere: organizzazione sociale, modi di essere
e di comportamento, abitudini di vita, insomma uno spaccato della civiltà
dell'epoca. E questo, forse, è il pregio maggiore di questo poema al punto che viene
da pensare che l'Omero dell'Iliade non sia lo stesso dell'Odissea. Qui il poeta
è interessato a presentarci i riti familiari e sociali, l'importanza della
figura femminile, le abitudini, i cibi, la struttura dei palazzi e delle
suppellettili. Rispetto all'altro poema qui sembra che la vita delle persone si
sia raffinata, che gli dei intervengano meno e che la figura dell'uomo sia più
centrale. L'impressione è che il mondo rappresentato è più evoluto, la ragione
prevale sulla forza bruta, i modi di comportamento sono più raffinati, le
emozioni più intime e meno violente. L'Odissea mi appare femmina, l'Iliade
maschia.
Queste considerazioni mi portano a pensare che
tra i due poemi ci sia un grande lasso di tempo il che naturalmente comporta
due autori diversi o, addirittura, anche più di due. Naturalmente queste sono
solo delle mie ipotesi nate dalla lettura delle due opere, oltre a tutto in una
traduzione riportata in versi, e che non possono basarsi su nessun fondamento.
La questione è aperta e forse lo sarà sempre ma una cosa è certa: se Omero è
Omero, unico e solo, è un grandissimo dal quale tutti hanno imparato qualcosa e
dopo migliaia di anni riesce ancora ad appassionarci, coinvolgerci, emozionarci
con ciò che dice e come lo dice.
Leggiamo
subito un brano tratto dal terzo libro e vediamo quale sia l’accoglienza
riservata agli ospiti e le modalità di svolgimento del convivio.
Atena, sotto
mentite spoglie, ha convinto Telemaco a partire in cerca di notizie del padre.
La prima tappa del viaggio è a Piro, dove si trova il vecchio e saggio Nestore
che, senza neppure conoscere i viaggiatori, li accoglie con gentilezza nella
propria casa invitandoli al proprio desco.
[…]
La dea dagli occhi di ceruleo
tinti,
Che gli accenti al garzon
primiera volse:
“Telemaco, depor tutta oggi è
d'uopo
La pueril vergogna. Il mar
passasti,
Ma per udir, dove s'asconda, e a
quale
Destin soggiacque il generoso
padre.
Su, dunque, dritto al domator
t'avvia
Di cavalli Nestorre, onde si
vegga
Quel ch'ei celato nella mente
porta.
Il ver da lui, se tu nel chiedi,
avrai:
Poiché mentir non può cotanto
senno”.
Il prudente Telemaco rispose:
Mentore, per qual modo al rege
amico
M'accosterò? Con qual saluto?
Esperto
Non sono ancor del favellar de'
saggi:
Né consente pudor, che a far
parole
Cominci col più vecchio il men
d'etade”.
Ma di tal guisa ripigliò la dea,
Cui cilestrino lume i rai colora:
“Telemaco, di ciò che dir dovrai,
Parte da sé ti nascerà nel core,
Parte nel cor la ti porranno i
numi:
Ché a dispetto di questi in luce,
io credo,
Non ti mandò la madre, e non ti
crebbe”.
Così parlando, frettolosa innanzi
Palla si mise, ed ei le andava
dopo.
Fur tosto in mezzo all'assemblea
de' Pilî,
Ove Nestor sedea co' figli suoi,
Mentre i compagni, apparecchiando
il pasto,
Altre avvampavan delle carni, ed
altre
Negli spiedi infilzavanle.
Adocchiati
Ebbero appena i forestier, che
incontro
Lor si fero in un groppo, e gli
abbracciâro,
E a seder gl'invitaro. Ad
appressarli
Pisistrato fu il primo, un de'
figliuoli
Del re. Li prese ambi per mano, e
in molli
Pelli, onde attappezzata era la
sabbia,
Appo la mensa gli adagiò tra il
caro
Suo padre ed il germano
Trasimede:
Delle viscere calde ad ambi
porse;
E, rosso vin mescendo in tazza
d'oro,
E alla gran figlia dell'Egìoco
Giove
Propinando: “Stranier”; dissele, “or
prega
Dell'acque il sir, nella cui
festa, i nostri
Lidi cercando, t'abbattesti
appunto.
Ma i libamenti, come più
s'addice,
Compiuti e i prieghi, del licor
soave
Presenta il nappo al tuo
compagno, in cui
Pur s'annida, cred'io, timor de'
numi,
Quando ha mestier de' numi ogni
vivente.
Meno ei corse di vita, e d'anni
eguale
Parmi con me: quindi a te pria la
coppa”.
E il soave licor le pose in mano.
Godea Minerva che l'uom giusto
pria
Offerto il nappo d'oro avesse a
lei,
E subito a Nettun così pregava:
“Odi, o Nettuno, che la terra
cingi,
E questi voti appagar degna.
Eterna
Gloria a Nestorre, ed a' suoi
figli in prima
E poi grata mercede a tutti i
Pili
Dell'inclita ecatombe. Al mio
compagno
Concedi inoltre e a me, che, ciò
fornito
Perché venimmo, su le patrie
arene
Con la negra torniam rapida nave”.
Tal supplicava, e adempiere
intendea
Questi voti ella stessa. Indi al
garzone
La bella offrì gemina coppa e
tonda,
Ed una egual preghiera il caro
figlio
D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro
intanto
Le pingui cosce, degli spiedi
acuti
Si dispiccaro e si spartiro: al
fine
L'alto si celebrò prandio
solenne.
[…]
Ho evidenziato alcune parti che ritengo più esplicite per avvalorare il mio pensiero. Non mi limito però a questo: nel prossimo brano, tratto dal libro sesto, vediamo Nausicaa che dispensa consigli ad Ulisse per presentarsi adeguatamente nella reggia dei Feaci.
[…]
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar
s'intende,
E i remi a ripulir: ché de' Feaci
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar
spumante.
Di cotestoro a mio potere io
sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s'abbattesse
a noi
Della feccia più vil: "Chi
è", non dica,
"Quel forestiero che Nausica
siegue,
Bello d'aspetto e grande? Ove
trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di
quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo
giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di
nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un
nume,
Che seco riterrà tutti i suoi
giorni.
Più bello ancor, se andò ella
stessa in traccia
D'uom d'altronde venuto, e a lui
donossi,
Dappoi che i molti, che
l'ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in
dispetto".
Così dirìano; e crudelmente
offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa
sdegno
Concepirei contra chïunque
osasse,
De' genitori non contenti in
faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini,
che sorto
Fosse delle sue nozze il dì
festivo.
Dunque a' miei detti bada; e
leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal
padre.
Folto di pioppi ed a Minerva
sacro
Ci s'offrirà per via bosco
fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli
prati
Cingono: ivi non più dalla
cittade
Lontan, che un gridar d'uomo, il
bel podere
Giace del padre, e l'orto suo
verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al
paterno
Tetto io giunga, sostieni; e
allor che giunta
Mi crederai, tu pur t'inurba, e
cerca
Il palagio del re. Del re il
palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un
fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de'
Feaci
Non sorge ostello che il paterno
adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le
superbe
Camere varca. Ella davanti al
foco,
Che del suo lume le colora il
volto,
Siede, e, poggiata a una colonna,
torce,
Degli sguardi stupor, purpuree
lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e
presso
S'alza del padre il trono, in
ch'ei, qual dio,
S'adagia, e della vite il nèttar
bee.
Declina il trono, e stendi alle
ginocchia
De la madre le braccia; onde tra
poco
Del tuo ritorno alle natìe
contrade,
Per remote che sien, ti spunti il
giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto
in core;
E di non riveder le patrie
sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici
il volto,
Bandisci dalla mente ogni
sospetto”.
[…]
Si possono fare su questo brano
diverse osservazioni. La giovane si preoccupa della propria reputazione e giudica
inopportuno giacere con un uomo prima del matrimonio, la maldicenza e le chiacchiere su di una giovane sono la consuetudine, nella reggia dei Feaci la
figura dominante è la moglie del re (anche se sarà alla fine lui a decidere) la quale
deve essere salutata per prima con grande rispetto: dal suo giudizio dipenderanno
l’accoglienza e l’esito delle richieste fatte dallo straniero.
Tutte queste piccole notazioni
nella storia avventurosa di Ulisse sono preziose: esse forniscono
inconsueti particolari nei riguardi del modo di sentire comune e della società
della Grecia primitiva. Il libro settimo verte completamente sull'incontro di Ulisse con Alcinoo e sembra scritto apposta per fornirci particolari di vita comune. La descrizione della reggia, il saluto dello straniero alla regina, l'accoglienza durante il banchetto, le libagioni sono tutte molto articolate e precise.
Leggiamone insieme qualche parte più indicativa.
La prima che intendo presentare è un elogio nei confronti di Arete espresso da Pallade Atena; la dea, sotto mentite spoglie e dopo averlo reso invisibile tramite una nube, parla ad Ulisse tessendo le lodi della regina dei Feaci.
[…]
Il primo, a cui fallìa
Prole del miglior sesso, avea di poco
Nella sua reggia la consorte addotta
Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse;
Né rimase di lui che una figliuola,
Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,
E venerolla fieramente: donna
Non vive in nodi maritali stretta,
Che sì alto al suo sposo in mente sieda.
E in gran pregio non men l'hanno, ed amore
Portanle i figli, e i cittadini ancora,
Che a lei, quandunque va per la cittade,
Gli occhi alzan, come a diva, e con accenti
Festivi la ricevono; ché senno
Né a lei pur manca vêr chi più tien caro,
E le liti non rado ella compone.
Se un loco prender nel suo cor tu sai,
La terra, dove i lumi apristi al giorno,
La magion de' tuoi padri, e degli amici
I noti volti riveder confida”.
Detto, la dea, ch'è nelle luci azzurra,
Su pel mare infruttifero lanciossi.
[…]
Vediamo ora la descrizione dell'ingresso di Ulisse nella reggia dove trova la corte riunita in banchetto. Anche in questo caso Omero non si dimentica di tessere un elogio delle donne dei Feaci.
Leggiamone insieme qualche parte più indicativa.
La prima che intendo presentare è un elogio nei confronti di Arete espresso da Pallade Atena; la dea, sotto mentite spoglie e dopo averlo reso invisibile tramite una nube, parla ad Ulisse tessendo le lodi della regina dei Feaci.
[…]
Il primo, a cui fallìa
Prole del miglior sesso, avea di poco
Nella sua reggia la consorte addotta
Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse;
Né rimase di lui che una figliuola,
Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,
E venerolla fieramente: donna
Non vive in nodi maritali stretta,
Che sì alto al suo sposo in mente sieda.
E in gran pregio non men l'hanno, ed amore
Portanle i figli, e i cittadini ancora,
Che a lei, quandunque va per la cittade,
Gli occhi alzan, come a diva, e con accenti
Festivi la ricevono; ché senno
Né a lei pur manca vêr chi più tien caro,
E le liti non rado ella compone.
Se un loco prender nel suo cor tu sai,
La terra, dove i lumi apristi al giorno,
La magion de' tuoi padri, e degli amici
I noti volti riveder confida”.
Detto, la dea, ch'è nelle luci azzurra,
Su pel mare infruttifero lanciossi.
[…]
Vediamo ora la descrizione dell'ingresso di Ulisse nella reggia dove trova la corte riunita in banchetto. Anche in questo caso Omero non si dimentica di tessere un elogio delle donne dei Feaci.
.................Dalla prima soglia
Sino al fondo correan due di massiccio
Rame pareti risplendenti, e un fregio
Di ceruleo metal girava intorno.
Porte d'ôr tutte la inconcussa casa
Chiudean: s'ergean dal limitar di bronzo
Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo
Sosteneano architrave, e anello d'oro
Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,
Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:
Fattura di Vulcan, che in lor ripose
Viscere dotte, e da vecchiezza immuni
Temperolli, e da morte, onde guardato
Fosse d'Alcinoo il glorïoso albergo.
E quanto si stendean le due pareti,
Eranvi sedie quinci e quindi affisse,
Con fini pepli sovrapposti, lunga
Delle donne di Scheria opra solerte.
Qui de' Feaci s'assideano i primi,
La mano ai cibi ed ai licor porgendo,
Che lor metteansi ciascun giorno avante:
E la notte garzoni in oro sculti
Su piedistalli a grande arte construtti,
Spargean lume con faci in su le mense.
Cinquanta il re servono ancelle: l'une
Sotto pietra rotonda il biondo grano
Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi
Con la rapida man rotano assise,
Movendosi ad ognor, quali agitate
Dal vento foglie di sublime pioppo.
Splendono i drappi a maraviglia intesti,
Come se un olio d'ôr su vi scorresse.
Poiché quanto i Feaci a regger navi
Gente non han che li pareggi, tanto
Valgon tele in oprar le Feacesi,
Cui mano industre più che all'altre donne
Diede Minerva, e più sottile ingegno.
Sino al fondo correan due di massiccio
Rame pareti risplendenti, e un fregio
Di ceruleo metal girava intorno.
Porte d'ôr tutte la inconcussa casa
Chiudean: s'ergean dal limitar di bronzo
Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo
Sosteneano architrave, e anello d'oro
Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,
Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:
Fattura di Vulcan, che in lor ripose
Viscere dotte, e da vecchiezza immuni
Temperolli, e da morte, onde guardato
Fosse d'Alcinoo il glorïoso albergo.
E quanto si stendean le due pareti,
Eranvi sedie quinci e quindi affisse,
Con fini pepli sovrapposti, lunga
Delle donne di Scheria opra solerte.
Qui de' Feaci s'assideano i primi,
La mano ai cibi ed ai licor porgendo,
Che lor metteansi ciascun giorno avante:
E la notte garzoni in oro sculti
Su piedistalli a grande arte construtti,
Spargean lume con faci in su le mense.
Cinquanta il re servono ancelle: l'une
Sotto pietra rotonda il biondo grano
Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi
Con la rapida man rotano assise,
Movendosi ad ognor, quali agitate
Dal vento foglie di sublime pioppo.
Splendono i drappi a maraviglia intesti,
Come se un olio d'ôr su vi scorresse.
Poiché quanto i Feaci a regger navi
Gente non han che li pareggi, tanto
Valgon tele in oprar le Feacesi,
Cui mano industre più che all'altre donne
Diede Minerva, e più sottile ingegno.
[…]
Trovò i Feaci condottieri e prenci,
Che libavan co' nappi all'Argicida
Mercurio, a cui libar solean da sezzo,
Come del letto gli assalìa la brama;
E innanzi trapassò, dentro alla folta
Nube che Palla gli avea sparsa intorno,
Finché ad Arete e al suo marito giunse.
Circondò con le braccia alla Reina
Le ginocchia; ed in quel da lui staccossi
La nube sacra, e in vento si disciolse.
Tutti repente ammutolîro, e forte
Stupìan, guardando l'uom che alla Reina
Supplicava in tal forma: “O del divino
Ressènore figliuola, illustre Arete,
Alle ginocchia tue, dopo infiniti
Disastri, io vegno, vegno al tuo consorte,
E a questi grandi ancor, cui dì felici
Menar gli dèi concedano, e ne' figli
Le ricchezze domestiche e gli onori
Che s'acquistaro, tramandare. Or voi
Scorta m'apparecchiate, acciocché in breve
Alla patria io mi renda ed agli amici,
Da cui vivo lontan tra i guai gran tempo”.
[…]
Come si può vedere in questi brani la figura femminile è molto importante
e messa in grande risalto. Ma questo è solo un esempio: in tutti i libri
seguenti avremo l'occasione per vedere tante altre donne (mogli, dee, maghe,
nutrici ecc.) che hanno un'importanza preminente all'interno della vicenda
raccontata.
Ulisse viene accolto con grande ospitalità nella reggia di Alcinoo e dopo
abluzioni, rivestito di nuovi sontuosi abiti, partecipa a un ricco banchetto.
Il giorno seguente si organizzano giochi in suo onore e già qui egli può
mostrare la sua valentia in diverse discipline.
Poi, però, non è più possibile rimanere nell’anonimato e quindi l’eroe
svelerà il suo nome e comincerà a raccontare le disgraziate vicende che l’hanno
condotto nella terra dei Feaci, solo e naufrago.
Comincia così nel libro IX il racconto di Ulisse e delle vicende che
giustamente hanno dato grande notorietà all’Odissea. Non è mia intenzione
riferire in questa sede ciò che per tutti è arcinoto ma voglio sottolineare con
esempi le caratteristiche che hanno reso famoso l'eroe omerico. Già si è
mostrato ai Feaci come possente guerriero ma nel racconto successivo emergono
le altre sue caratteristiche. L'astuzia, la sete di conoscenza,
l’intraprendenza che possiede, sono al tempo stesso grandi pregi ma anche la
causa della propria rovina.
L’episodio nella terra dei ciclopi con
Polifemo ne è un classico esempio: Ulisse vuole scendere e soffermarsi in ogni
terra che incontra nel suo viaggio perché ha desiderio di conoscere tutti i
luoghi e le genti che li abitano; inganna Polifemo, dimostrandosi accorto e
astuto, facendosi chiamare Nessuno e inventa per sé e per i propri compagni il
sotterfugio di uscire dalla caverna sotto la pancia degli arieti. Una volta
fuggito dall’isola, però, quando ormai si trova a distanza di sicurezza, non sa
trattenere la propria baldanza e comunica al ciclope il suo vero nome: tutti
devono sapere che è stato Ulisse a prendersi gioco di lui e ad accecarlo per i
misfatti compiuti. Polifemo, però, è figlio del dio Poseidone e appellandosi al
padre chiede che Ulisse debba arrivare in patria dopo aver perso tutti i
compagni e dopo lungo tempo e molte disgrazie. E anche quivi giunto dovrà
ancora sopportare e superare diverse avversità.
Da questo episodio si può comprendere la
scelta di Dante di presentarci Ulisse confinato nell’inferno. Ulisse ha sete di
conoscenza ed è troppo intraprendente: nel suo viaggio oltre le colonne
d’Ercole, che segnano il limite del mondo conosciuto, egli pecca gravemente
perché sfida Dio cercando di superare i limiti imposti all’uomo dalla Sua volontà.
Leggiamo alcuni brani estratti dal libro
IX.
[…]
Alla spelonca divenuti in breve,
Lui non trovammo, che per l'erte cime
Le pecore lanigere aderbava.
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de' formaggi, e piene
D'agnelli e di capretti eran le stalle:
E i più grandi, i mezzani, i nati appena,
Tutti, come l'etade, avean del pari
Lor propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe
Premer solea delle feconde madri,
Entro il siere nôtavano. Qui forte
I compagni pregavanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti s'adducessero ed agnelli
Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse:
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
E trar doni da lui, che riuscirci
Ospite sì inamabile dovea.
[…]
La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo
Del soave licor prese diletto,
E un'altra volta men chiedea: "Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch'io ti porga
L'ospital dono che ti metta in festa.
Vino ai Ciclopi la feconda terra
Produce col favor di tempestiva
Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:
Ma questo è ambrosia e nèttare celeste".
Un'altra volta io gli stendea la coppa.
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando m'accorsi che saliti al capo
Del possente licor gli erano i fumi,
Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome
Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi
Tu del promesso a me dono ospitale.
Nessuno è il nome; me la madre e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".
Ed ei con fiero cor: "L'ultimo ch'io
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale".[…]
[…]
Ed i Ciclopi
Quinci e quindi accorrean, la voce udita
E soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo:
"Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridàstu mai? Perché così ci turbi
La balsamica notte e i dolci sonni?
Fùrati alcun la greggià? o uccider forse
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"
E Polifemo dal profondo speco:
"Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,
Non già colla virtude". "Or se nessuno
Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,
Da Giove è il morbo, e non v'ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".
Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:
Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.
Così il Ciclope io motteggiai: "Ciclope,
Color che nel tuo cavo antro, le grandi
Forze abusando, divorasti, amici
Non eran dunque d'un mortal da nulla,
E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!
Che la carne cenar nelle tue case
Non temevi degli ospiti. Vendetta
Però Giove ne prese e gli altri numi".
[…]
Scorso di mar due volte tanto, i detti
A Polifemo io rivolgea di nuovo,
Benché gli amici con parole blande
D'ambo i lati tenessermi: "Infelice!
Perché la fera irritar vuoi più ancora?
Così poc'anzi a saettar si mise,
Che tre dita mancò, che risospinto
Non percotesse al continente il legno.
Fa che gridare o favellar ci senta,
E volerà per l'aere un'altra rupe,
Che le nostre cervella, e in un la nave
Sfracellerà: tanto colui dardeggia".
L'alto mio cor non si piegava. Quindi:
"Ciclope", io dissi con lo sdegno in petto,
"Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,
D'Itaca abitator, figlio a Laerte,
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse".
[…]
Ed ei, le palme alla stellata volta
Levando, il supplicava: "O chiomazzurro,
Che la terra circondi, odi un mio voto.
Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,
D'Itaca abitator, figlio a Laerte
Struggitor di cittadi, unqua non rieda.
E dove il natìo suolo, e le paterne
Case il destin non gli negasse, almeno
Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,
Perduti in pria tutti i compagni, e nuove
Nell'avìta magion trovi sciagure".
[…]
Nell'avìta magion trovi sciagure".
[…]
Nel brano precedente possiamo
individuare la ragione per la quale Poseidone perseguita Ulisse con tanto
accanimento, persecuzione che è la fonte di molti suoi mali.
Questa con il ciclope Polifemo è una delle
avventure di Ulisse tra le più note e significative per evidenziare la
scaltrezza dell'eroe; in quelle che seguono invece, troviamo la peculiarità che
maggiormente colpisce Dante: la sete di conoscenza. Questa è particolarmente
evidente nell'episodio della maga Circe, come in quello delle sirene e forse
soprattutto nell'incontro ravvicinato tra Scilla e Cariddi.
Nonostante gli
avvertimenti di Circe, Ulisse vuol scrutare il mostro con le sei teste e
indossata la sua armatura di guerriero, si pone sulla prua della nave con
atteggiamento di sfida. Questa sua imprudenza per sete di conoscenza, malgrado
gli avvisi ricevuti, è causa della morte di alcuni suoi compagni che ormai
inutilmente lo invocano prima di essere divorati dalla bestia furiosa.
I compagni di Ulisse attratti da Circe saranno tramutati in porci. |
Anche i più audaci, però, provano terrore e sgomento di fronte
alla morte. La maga Circe, prima di lasciar andar via Ulisse con tutti i suoi
compagni, impone che egli visiti il regno di Ade per parlare e ascoltare le
previsioni dell'indovino Tiresia. Anche il nostro eroe in questo caso perde la
propria baldanza e si lamenta piangendo con disperazione.
[…]
Correre in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi
Di Pluto e di Proserpina soggiorni
Vedere in prima, e interrogar lo spirto
Del teban vate, che, degli occhi cieco,
Puro conserva della mente il lume;
Di Tiresia, cui sol diè Proserpina
Tutto portar tra i morti il senno antico.
Gli altri non son che vani spettri ed ombre".
Rompere il core io mi sentìi. Piagnea,
Su le piume giacendomi, né i raggi
Volea del Sol più rimirare. Al fine,
Poiché del pianger mio, del mio voltarmi
Su le piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,
"Di tal vïaggio sarà il duce? All'Orco
Nessun giunse finor su negra nave".
[…]
Il viaggio nell’Ade è una caratteristica presente nei poemi più
antichi che sarà ripreso anche da Virgilio nell’Eneide. In questo viaggio Ulisse
incontra diversi eroi tra quelli morti sotto le mura di Troia, ottiene delle
previsioni non proprio rassicuranti sul suo ritorno in patria ma soprattutto
incontra la vecchia madre che, come Achille nel sogno con Patroclo, tenta di
abbracciare per ben tre volte, ottenendo però solo il contatto con un’ombra.
Questo dell’incontro con la madre è il brano che preferisco tra gli incontri di
Ulisse nell’Ade ed è commovente e sorprendente con quanta finezza e delicatezza
Omero, poeta epico, narratore di gesta guerriere eroiche, riesca a tradurre la
tenerezza tra madre e figlio che s’incontrano dopo tanti anni in condizioni così
drammatiche. Leggiamo questa breve parte
così toccante tratta dal libro XI sempre nella traduzione di Ippolito
Pindemonte.
[…]
Comparve in questo dell'antica madre
L'ombra sottile, d'Anticlèa, che
nacque
Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo
Era tra i vivi ch'io per Troia
sciolsi.
La vidi appena, che pietà mi strinse,
E il lagrimar non tenni: ma né a lei,
Quantunque men dolesse, io permettea
Al sangue atro appressar, se il vate
prima
Favellar non s'udìa.
[…]
Svelate a me tai cose, in seno a Dite
Del profetante re l'alma s'immerse.
Ma io di là non mi togliea. La madre
S'accostò intanto, né del negro sangue
Prima bevé, che ravvisommi, e queste
Mi drizzò, lagrimando, alate voci:
"Deh come, figliuol mio,
scendéstu vivo
Sotto l'atra caligine? Chi vive,
Difficilmente questi alberghi mira,
Però che vasti fiumi e paurose
Correnti ci dividono, e il temuto
Ocean, cui varcare ad uom non lice,
Se nol trasporta una dedalea nave.
Forse da Troia, e dopo molti errori,
Con la nave e i compagni a questo buio
Tu vieni? Né trovar sapesti ancora
Itaca tua? né della tua consorte
Riveder nel palagio il caro volto?
"
"O madre mia, necessità",
risposi,
"L'alma indovina a interrogar
m'addusse
Del Tebano Tiresia. Il suolo acheo
Non vidi ancor, né i liti nostri
attinsi;
Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,
Dappoi che a Troia ne' puledri bella
Seguìi, per disertarla, il primo
Atride.
Su via, mi narra, e schiettamente,
come
Te la di lunghi sonni apportatrice
Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,
O te Dïana faretrata assalse
Con improvvisa non amara freccia?
Vive l'antico padre, il figlio vive,
Che in Itaca io lasciai? Nelle man
loro
Resta, o passò ad altrui la mia
ricchezza,
E ch'io non rieda più, si fa ragione?
E la consorte mia qual cor, qual mente
Serba? Dimora col fanciullo, e tutto
Gelosamente custodisce, o alcuno
Tra i primi degli Achei forse
impalmolla? "
Riprese allor la veneranda madre:
"La moglie tua non lasciò mai la
soglia
Del tuo palagio; e lentamente a lei
Scorron nel pianto i dì, scorron le
notti.
Stranier nel tuo retaggio, in sin
ch'io vissi,
Non entrò: il figlio su i paterni
campi
Vigila in pace, e alle più illustri
mense,
Cui l'invita ciascuno, e che non dee
Chi nacque al regno dispregiar,
s'asside.
Ma in villa i dì passa Laerte, e mai
A cittade non vien: colà non letti,
Non coltri, o strati sontuosi, o
manti.
Di vestimenta ignobili coverto
Dorme tra i servi al focolare il verno
Su la pallida cenere: e se torna
L'arida estate, o il verdeggiante
autunno,
Lettucci umìli di raccolte foglie,
Stesi a lui qua e là per la feconda
Sua vigna, preme travagliato, e il
duolo
Nutre, piangendo la tua sorte: arrogi,
La vecchiezza increscevole che il
colse.
Non altrimenti de' miei stanchi giorni
Giunse il termine a me, cui non Dïana,
Sagittaria infallibile, di un sordo
Quadrello assalse, o di que' morbi
invase,
Che soglion trar delle consunte membra
L'anima fuor con odïosa tabe:
Ma il desìo di vederti, ma l'affanno
Della tua lontananza, ma i gentili
Modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,
La vita un dì sì dolce hannomi
tolta".
Io, pensando tra me, l'estinta madre
Volea stringermi al sen: tre volte
corsi,
Quale il mio cor mi sospingea, vêr
lei,
E tre volte m'usci fuor delle braccia,
Come nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura più acerba mi trafisse e ratto:
"Ahi, madre", le diss'io,
"perché mi sfuggi
D'abbracciarti bramoso, onde, anco a
Dite,
Le man gittando l'un dell'altro al
collo,
Di duol ci satolliamo ambi, e di
pianto?
Fantasma vano, acciò più sempre io
m'anga,
Forse l'alta Proserpina
mandommi?"
"O degli uomini tutti il più
infelice",
La veneranda genitrice aggiunse,
"No, l'egregia Proserpina, di
Giove
La figlia, non t'inganna. È de'
mortali
Tale il destin, dacché non son più in
vita,
Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i
nervi
Non si congiungan più: tutto consuma
La gran possanza dell'ardente foco,
Come prima le bianche ossa abbandona,
E vagola per l'aere il nudo spirto.
Ma tu d'uscire alla superna luce
Da questo buio affretta: e ciò che
udisti,
E porterai nell'anima scolpito,
Penelope da te risappia un giorno".
[…]
Le peregrinazioni di Ulisse si esauriscono rapidamente. Dopo
il viaggio nell’Ade possiamo incontrare dei passi molto noti che ritengo
superfluo riportare. Le sirene, Scilla e Cariddi, la perdita di tutti i
compagni a causa del torto fatto al Sole per aver mangiato alcune giovenche sacre,
l’approdo a Ogigia e la lunga permanenza da Calipso sono parti del poema così
note che e preferisco tralasciarle. Sempre belle sono però le opere d’arte che
hanno illustrato queste vicende nel corso dei secoli. Eccone alcune che ho
scelto tra le tante.
Ulisse ascolta il canto delle sirene legato all'albero della nave per sfuggire al loro canto.
In questa immagine è condensato l'avventura di Scilla e Cariddi.
La nave si mantiene lontana dal gorgo di Cariddi che l'avrebbe risucchiata nel suo vortice. Dall'altra parte invece è raffigurata Scilla con le sue teste ed è documentato anche l'episodio nel quale si racconta come alcuni compagni siano divorati dal mostro
In questa rappresentazione, però, vediamo allontanarsi il messaggero degli dei che impone a Calipso di lasciar libero l'eroe.
Tutta la seconda parte del poema è dedicata al ritorno a Itaca e alla vendetta sui proci. Forse è un po’ tirata per le lunghe ma crea
comunque aspettativa e non arriva mai alla ripetizione o alla noia. Ulisse si
presenta come un mendico al porcaro Eumeo dal quale però non si fa riconoscere.
È Atena che lo segue, lo consiglia, lo tramuta in vecchio ed è sempre presente
nell’azione fino alla fine. Il primo al quale Ulisse si palesa è il figlio
Telemaco. Questa figura, che nei primi libri è presentata ancora piuttosto
incerta e con caratteristiche adolescenziali, dopo il ritorno del padre e con
la prosecuzione della storia diventa sempre più matura come se questo incontro
fornisca sicurezza, ardore e combattività. La presenza dell’eroe fa sì che il
figlio maturi e divenga uomo e guerriero.
Telemaco
[…]
“Non sono alcun degl'Immortali”, Ulisse
Gli rispondea. “Perché agli dèi m'agguagli?
Tuo padre io son: quel per cui tante soffri
Nella tua fresca età sciagure ed onte”.
Così dicendo baciò il figlio, e al pianto,
Che dentro gli occhi avea costantemente
Ritenuto sin qui, l'uscita aperse.
Telemaco d'aver su gli occhi il padre
Credere ancor non sa. “No”, replicava,
“Ulisse tu, tu il genitor non sei,
Ma per maggior mia pena un dio m'inganna.
Tai cose oprar non vale uom da se stesso,
Ed è mestier che a suo talento il voglia
Ringiovanire, od invecchiarlo, un nume.
Bianco i capei testé, turpe le vesti
Eri, ed ora un Celicola pareggi”.
“Telemaco”, riprese il saggio eroe,
“Poco per veritade a te s'addice,
Mentre possiedi il caro padre, solo
Maraviglia da lui trarre e spavento:
Ché un altro Ulisse aspetteresti indarno.
Si, quello io son, che dopo tanti affanni
Durati e tanti, nel vigesim'anno
La mia patria rividi. Opra fu questa
Della Tritonia bellicosa diva,
Che qual più aggrada a lei, tale mi forma:
Ora un canuto mendicante, e quando
Giovane con bei panni al corpo intorno:
Però che alzare un de' mortali al cielo,
O negli abissi porlo, è lieve ai numi”.
Così detto, s'assise. Il figlio allora
Del genitor s'abbandonò sul collo,
In lagrime scoppiando ed in singhiozzi.
Ambi un vivo desir sentìan del pianto:
Né di voci sì flebili e stridenti
Risonar s'ode il saccheggiato nido
D'aquila o d'avoltoio, a cui pastore
Rubò i figliuoli non ancor pennuti,
Come de' pianti loro e delle grida
Miseramente il padiglion sonava.
[…]
[…]
Euriclea
[…]
Tal cicatrice l'amorosa vecchia
Conobbe, brancicandola, ed il piede
Lasciò andar giù: la gamba nella conca
Cadde, ne rimbombò il concavo rame,
E piegò tutto da una banda; e in terra
L'acqua si sparse. Gaudio a un'ora e duolo
La prese, e gli occhi le s'empiêr di pianto,
E in uscir le tornò la voce indietro.
Proruppe al fin, prendendolo pel mento:
“Caro figlio, tu sei per certo Ulisse,
Né io, né io ti ravvisai, che tutto
Pria non avessi il mio signor tastato”.
Tacque; e guardò Penelope, volendo
Mostrar che l'amor suo lungi non era.
Ma la reina né veder di contra
Poteo, né mente por: che Palla il core
Le torse altrove. Ulisse intanto strinse
Con la man destra ad Euriclèa la gola,
E a sé tirolla con la manca, e disse:
“Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa,
Sì, mi tenesti alla tua poppa un giorno,
E nell'anno ventesimo, sofferte
Pene infinite, alla mia patria io venni.
Ma, poiché mi scopristi, e un dio sì volle,
Taci, e di me qui dentro altri non sappia:
Però ch'io giuro, e non invan, che s'io
Con l'aiuto de' numi i proci spegno,
Né da te pur, benché mia balia, il braccio,
Che l'altre donne ucciderà, ritengo”.
“Figlio, qual mai dal core osò parola
Salirti in su le labbra?” ella riprese.
“Non mi conosci tu nel petto un'alma
Ferma ed inespugnabile? Il segreto
Io serberò, qual dura selce o bronzo.
[…]
Il piano di vendetta non è ordito dall’eroe in solitudine ma è sempre consigliato e seguito da Atena con il beneplacito del saturnide Giove. A questo punto è opportuno fare delle considerazioni sugli dei dell’Odissea messi a confronto con quelli dell’ Iliade. In questo campo i due poemi sono completamenti diversi: gli dei tutti o quasi, i loro screzi, i loro aiuti nei confronti degli eroi che proteggono, la loro continua presenza attiva che condiziona la storia rivestono un’importanza nel primo poema che è del tutto assente nel secondo. Oltre ad Atena che è sempre presente, abbiamo spesso riferimenti a Zeus ma non di più. Sembra che gli dei siano divenuti meno importanti in questa società più evoluta, l’uomo è forse più centrale.
Leggiamo il brano nel quale viene stilato l'accordo tra Atena e Ulisse tratto dal XIII libro
[…]
Sorrise a questo la degli occhi azzurra,
E con man careggiollo; e uguale a donna
Bella, di gran sembiante, e di famosi
Lavori esperta, in un momento apparve,
E a così fatti accenti il volo sciolse:
“Certo sagace anco tra i numi, e solo
Colui sarìa, che d'ingannar nell'arte
Te superasse! Sciagurato, scaltro,
Di frodi insazïabile, non cessi
Dunque né in patria dai fallaci detti,
Che ti piaccion così sin dalla culla?
Ma di questo non più: che d'astuzie ambo
Maestri siam; tu di gran lunga tutti
D'inventive i mortali e di parole
Sorpassi, tutti io di gran lunga i numi.
Dunque la figlia ravvisar di Giove
Tu non sapesti, che a te assisto sempre
Nelle tue prove, e te conservo, e grazia
Ti fei trovare appo i Feaci? E or venni
Per ammonirti, e per celare i fatti
Col mio soccorso a te splendidi doni,
Non che narrarti ciò che per destino
Nel tuo palagio a sopportar ti resta.
Tu soffri, benché astretto; e ad uomo o a donna
L'arrivo tuo non palesar; ma tieni
Chiusi nel petto i tuoi dolori, e solo
Col silenzio rispondi a chi t'oltraggia”.
[…]
Ora io ti priego
Pel tuo gran padre, quando in terra estrana,
Non nella patria mia, credomi, e temo
Che tu di me prender ti voglia gioco,
Ti priego dirmi, o dea, se veramente
Degli occhi Itaca io veggio, e del piè calco”.
E la dea, che rivolge azzurri i lumi:
“Tu mai te stesso non oblii. Quind'io
Non posso ai mali abbandonarti in preda;
Tal mostri ingegno, tal facondia e senno.
Altri, che dopo error molti giungesse,
Sposa e figli mirar vorrìa repente;
E a te nulla sapere, o chieder piace,
Se con gran cura non assaggi e tenti
Prima la tua, che invan t'aspetta, e a cui
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.
Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno,
Benché ritorno solitario e tristo;
Se non che al zio Nettun con te crucciato
Dell'occhio che spegnesti al figlio in fronte,
Repugnar non volea. Ma or ti mostro
D'Itaca il sito, e a credermi io ti sforzo.
Ecco il porto di Forcine, e la verde
Frondosa oliva che gli sorge in cima.
Ecco non lunge opaco antro ameno,
Alle Naiadi sacro; la convessa
Spelonca vasta riconosci, dove
Ecatombi legittime alle ninfe
Sagrificar solevi. Ecco il sublime
Nerito monte che di selve ondeggia.
Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve.
Giubilò Ulisse alla diletta vista
Della sua patria, e baciò l'alma terra.
[…]
Dal libro XVIII
[…]
Così detto, scendea dalle superne
Lucide stanze al basso, e non già sola:
Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo.
Sul limitar della dedàlea sala,
Ove i proci sedean, trovasi appena,
Che arresta il pié tra l'una e l'altra ancella
L'ottima delle donne, e co' sottili
Veli del capo ambo le guance adombra.
Senza forza restaro e senza moto:
L'alma più intenerìa, si raddoppiava
Delle nozze il desire in ogni petto.
Ella queste a Telemaco parole:
“Figlio, io te più non riconosco. Sensi
Nutrivi in mente più maturi e scorti
Nella tua fanciullezza; ed or che grande
Ti veggio, e in un'età più ferma entrato,
Or, che stranier, che a riguardar si fesse
La tua statura e la beltà, te prole
D'uom beato dirìa, più non dimostri
Giustizia o senno. Tollerar sì indegno
Trattamento d'un ospite in tua reggia?
Oltraggio sì crudel, che vendicato
Non siagli, puote a un forestier qui usarsi,
Che su te non ne cada eterno scorno?”
[…]
Dal libro XIX
[…]
Udì tutto Penelope, e l'ancella
Telemaco
[…]
“Non sono alcun degl'Immortali”, Ulisse
Gli rispondea. “Perché agli dèi m'agguagli?
Tuo padre io son: quel per cui tante soffri
Nella tua fresca età sciagure ed onte”.
Così dicendo baciò il figlio, e al pianto,
Che dentro gli occhi avea costantemente
Ritenuto sin qui, l'uscita aperse.
Telemaco d'aver su gli occhi il padre
Credere ancor non sa. “No”, replicava,
“Ulisse tu, tu il genitor non sei,
Ma per maggior mia pena un dio m'inganna.
Tai cose oprar non vale uom da se stesso,
Ed è mestier che a suo talento il voglia
Ringiovanire, od invecchiarlo, un nume.
Bianco i capei testé, turpe le vesti
Eri, ed ora un Celicola pareggi”.
“Telemaco”, riprese il saggio eroe,
L'abbraccio tra Ulisse e Telemaco. 1880. Henri Lucien Doucet |
Mentre possiedi il caro padre, solo
Maraviglia da lui trarre e spavento:
Ché un altro Ulisse aspetteresti indarno.
Si, quello io son, che dopo tanti affanni
Durati e tanti, nel vigesim'anno
La mia patria rividi. Opra fu questa
Della Tritonia bellicosa diva,
Che qual più aggrada a lei, tale mi forma:
Ora un canuto mendicante, e quando
Giovane con bei panni al corpo intorno:
Però che alzare un de' mortali al cielo,
O negli abissi porlo, è lieve ai numi”.
Così detto, s'assise. Il figlio allora
Del genitor s'abbandonò sul collo,
In lagrime scoppiando ed in singhiozzi.
Ambi un vivo desir sentìan del pianto:
Né di voci sì flebili e stridenti
Risonar s'ode il saccheggiato nido
D'aquila o d'avoltoio, a cui pastore
Rubò i figliuoli non ancor pennuti,
Come de' pianti loro e delle grida
Miseramente il padiglion sonava.
[…]
Né di voci sì flebili e stridenti
Risonar s'ode il saccheggiato
nido
D'aquila o d'avoltoio, a cui
pastore
Rubò i figliuoli non ancor
pennuti,
Come de' pianti loro e delle
grida
Miseramente il padiglion sonava.
E già piagnenti e sospirosi
ancora
Lasciati avrìali, tramontando, il
Sole,
Se il figlio al padre non dicea:
“Qual nave,
Padre, qua ti condusse, e quai
nocchieri?
Certo in Itaca il piè non ti
portava”.
“Celerò il vero a te?” l'eroe
rispose,
“I Feaci sul mar dotti, e di
quanti
Giungono errando alle lor piagge
industri
Riconduttori, me su ratta nave
Dormendo per le salse onde
guidâro,
E in Itaca deposero. Mi fêro
Di bronzo in oltre e d'oro e
intesti panni
Bei doni, e molti, che in
profonde grotte
Per consiglio divin giaccionmi
ascosi.
Ed io qua venni al fin, teco de'
proci
Nostri nemici a divisar la
strage,
Con l'avviso di Pallade. Su via,
Cóntali a me, si ch'io conosca,
quanti
Uomini sono e quali, e nella
mente
Libri, se contra lor combatter
soli,
O in aiuto chiamare
altri convegna”[…]
A seguire ci sono altri riconoscimenti: il fedele cane
Argo ormai vecchio, vedendo il proprio padrone, muore dopo averlo accolto
gioiosamente con le poche forze che gli sono rimaste. Anche la vecchia nutrice, Euriclea,
mentre provvede al lavaggio dei piedi del mendico, riconosce Ulisse da una
vecchia ferita che gli era stata inferta da un grande cinghiale in gioventù
durante una battuta di caccia. Euriclea vorrebbe subito avvisare la sua regina
Penelope, moglie di Ulisse, ma questi glielo impedisce rimandando il momento
del riconoscimento dopo aver consumato la vendetta nei confronti di tutti i
pretendenti al trono che occupano la sua casa gozzovigliando e depauperando le
sue ricchezze.
Argo
[…]
Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch'ivi giacea, del pazïente Ulisse
La testa ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l'eroe,
Ma côrne, spinto dal suo fato a Troia,
Poco frutto poté. Bensì condurlo
Contro i lepri ed i cervi e le silvestri
Capre solea la gioventù robusta.
Negletto allor giacea nel molto fimo
Di muli e buoi sparso alle porte innanzi,
Finché i poderi a fecondar d'Ulisse,
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava.
Com'egli vide il suo signor più presso,
E benché tra que' cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò: ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s'asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi da Eumèo, cui disse tosto:
“Eumèo, quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane sì bello.
Ma non so se del pari ei fu veloce,
O nulla valse, come quei da mensa,
Cui nutron per bellezza i lor padroni”.
[…]
Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e avvïossi drittamente ai proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.
[…]
Euriclea
[…]
Tal cicatrice l'amorosa vecchia
Conobbe, brancicandola, ed il piede
Lasciò andar giù: la gamba nella conca
Cadde, ne rimbombò il concavo rame,
E piegò tutto da una banda; e in terra
L'acqua si sparse. Gaudio a un'ora e duolo
La prese, e gli occhi le s'empiêr di pianto,
E in uscir le tornò la voce indietro.
Proruppe al fin, prendendolo pel mento:
Ulisse riconosciuto da Euriclea. Gustave Boulanger, 1849 circa. |
Né io, né io ti ravvisai, che tutto
Pria non avessi il mio signor tastato”.
Tacque; e guardò Penelope, volendo
Mostrar che l'amor suo lungi non era.
Ma la reina né veder di contra
Poteo, né mente por: che Palla il core
Le torse altrove. Ulisse intanto strinse
Con la man destra ad Euriclèa la gola,
E a sé tirolla con la manca, e disse:
“Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa,
Sì, mi tenesti alla tua poppa un giorno,
E nell'anno ventesimo, sofferte
Pene infinite, alla mia patria io venni.
Ma, poiché mi scopristi, e un dio sì volle,
Taci, e di me qui dentro altri non sappia:
Però ch'io giuro, e non invan, che s'io
Con l'aiuto de' numi i proci spegno,
Né da te pur, benché mia balia, il braccio,
Che l'altre donne ucciderà, ritengo”.
“Figlio, qual mai dal core osò parola
Salirti in su le labbra?” ella riprese.
“Non mi conosci tu nel petto un'alma
Ferma ed inespugnabile? Il segreto
Io serberò, qual dura selce o bronzo.
[…]
Il piano di vendetta non è ordito dall’eroe in solitudine ma è sempre consigliato e seguito da Atena con il beneplacito del saturnide Giove. A questo punto è opportuno fare delle considerazioni sugli dei dell’Odissea messi a confronto con quelli dell’ Iliade. In questo campo i due poemi sono completamenti diversi: gli dei tutti o quasi, i loro screzi, i loro aiuti nei confronti degli eroi che proteggono, la loro continua presenza attiva che condiziona la storia rivestono un’importanza nel primo poema che è del tutto assente nel secondo. Oltre ad Atena che è sempre presente, abbiamo spesso riferimenti a Zeus ma non di più. Sembra che gli dei siano divenuti meno importanti in questa società più evoluta, l’uomo è forse più centrale.
Leggiamo il brano nel quale viene stilato l'accordo tra Atena e Ulisse tratto dal XIII libro
[…]
Sorrise a questo la degli occhi azzurra,
E con man careggiollo; e uguale a donna
Bella, di gran sembiante, e di famosi
Lavori esperta, in un momento apparve,
E a così fatti accenti il volo sciolse:
“Certo sagace anco tra i numi, e solo
Colui sarìa, che d'ingannar nell'arte
Te superasse! Sciagurato, scaltro,
Di frodi insazïabile, non cessi
Dunque né in patria dai fallaci detti,
Che ti piaccion così sin dalla culla?
Ma di questo non più: che d'astuzie ambo
Maestri siam; tu di gran lunga tutti
D'inventive i mortali e di parole
Sorpassi, tutti io di gran lunga i numi.
Dunque la figlia ravvisar di Giove
Tu non sapesti, che a te assisto sempre
Nelle tue prove, e te conservo, e grazia
Ti fei trovare appo i Feaci? E or venni
Per ammonirti, e per celare i fatti
Col mio soccorso a te splendidi doni,
Non che narrarti ciò che per destino
Nel tuo palagio a sopportar ti resta.
Tu soffri, benché astretto; e ad uomo o a donna
L'arrivo tuo non palesar; ma tieni
Chiusi nel petto i tuoi dolori, e solo
Col silenzio rispondi a chi t'oltraggia”.
[…]
Ora io ti priego
Pel tuo gran padre, quando in terra estrana,
Non nella patria mia, credomi, e temo
Che tu di me prender ti voglia gioco,
Ti priego dirmi, o dea, se veramente
Degli occhi Itaca io veggio, e del piè calco”.
E la dea, che rivolge azzurri i lumi:
“Tu mai te stesso non oblii. Quind'io
Non posso ai mali abbandonarti in preda;
Tal mostri ingegno, tal facondia e senno.
Altri, che dopo error molti giungesse,
Sposa e figli mirar vorrìa repente;
E a te nulla sapere, o chieder piace,
Se con gran cura non assaggi e tenti
Prima la tua, che invan t'aspetta, e a cui
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.
Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno,
Benché ritorno solitario e tristo;
Se non che al zio Nettun con te crucciato
Dell'occhio che spegnesti al figlio in fronte,
Repugnar non volea. Ma or ti mostro
D'Itaca il sito, e a credermi io ti sforzo.
Ecco il porto di Forcine, e la verde
Frondosa oliva che gli sorge in cima.
Ecco non lunge opaco antro ameno,
Alle Naiadi sacro; la convessa
Spelonca vasta riconosci, dove
Ecatombi legittime alle ninfe
Sagrificar solevi. Ecco il sublime
Nerito monte che di selve ondeggia.
Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve.
Giubilò Ulisse alla diletta vista
Della sua patria, e baciò l'alma terra.
[…]
Il brano precedente è significativo. Atena è dalla parte di
Ulisse, promette assistenza e aiuto. L’eroe è quindi sicuro che, tramite l’appoggio
di una dea così importante, potrà portare a termine la sua vendetta nei
confronti dei proci. Ulisse, con il solo aiuto del figlio e di un esiguo gruppo
di amici fidati, ucciderà la schiera degli invasori della sua reggia che hanno
dilapidato le sue ricchezze e soprattutto hanno insidiato la virtù della cara
moglie Penelope.
Questa parte finale del poema ci riporta indietro, all’Omero
che conosciamo meglio e che è con maggior forza impresso nella nostra mente, l’Omero
dell’Iliade, il cantore di aspre battaglie che non rifugge dal descrivere
particolari anche cruenti. Il primo che cade sotto i dardi di Ulisse è il più
rappresentativo dei proci, Antinoo. In quest’occasione Omero si compiace nell’illustrare
questa uccisione non risparmiando al lettore anche particolari sanguinosi.
Leggiamo questi versi tratti dal libro XXII.
[…]
Surse e spogliossi de' suoi cenci
Ulisse,
E sul gran limitare andò d'un
salto,
L'arco tenendo e la faretra. I
ratti
Strali, onde gravida era, ivi
gittossi
Davante ai piedi, e ai proci
disse: “A fine
Questa difficil prova è già
condotta.
Ugo Attardi |
Ora io vedrò, se altro bersaglio,
in cui
Nessun diede sin qui, toccar
m'avviene,
E se me tanto privilegia Apollo”.
Così dicendo, ei dirigea l'amaro
Strale in Antinoo. Antinoo una
leggiadra
Stava per innalzar coppa di vino
Colma a due orecchie, e d'oro: ed
alle labbra
Già l'appressava: né pensier di
morte
Nel cor gli si volgea. Chi avrìa
creduto
Che fra cotanti a lieta mensa
assisi
Un sol, quantunque di gran forze,
il nero
Fabbricar gli dovesse ultimo
fato?
Nella gola il trovò col dardo
Ulisse,
E sì colpillo, che dall'altra
banda
Pel collo delicato uscì la punta.
Ei piegò da una parte e dalle
mani
La coppa gli cadé: tosto una
grossa
Vena di sangue mandò fuor pel
naso;
Percosse colle piante, e da sé il
desco
Respinse; sparse le vivande a
terra;
Ed i pani imbrattavansi e le carni.
[…]
Ulisse svela finalmente a tutti la sua vera identità, i
proci invocano misericordia ma ormai è tutto inutile: la fiera vendetta è
iniziata. Naturalmente Atena viene in soccorso al suo protetto.
[…]
Ma torvo riguardolli, e in questa guisa
Favellò Ulisse: “Credevate, o cani,
Che d'Ilio io più non ritornassi, e intanto
La casa disertar, stuprar le ancelle,
E la consorte mia, me vivo, ambire
Costumavate, non temendo punto
Né degli dèi la grave ira, né il biasmo
Permanente degli uomini. Ma venne
La fatale per voi tutti ultima sera”.
Ma torvo riguardolli, e in questa guisa
Favellò Ulisse: “Credevate, o cani,
Che d'Ilio io più non ritornassi, e intanto
La casa disertar, stuprar le ancelle,
E la consorte mia, me vivo, ambire
Costumavate, non temendo punto
Né degli dèi la grave ira, né il biasmo
Permanente degli uomini. Ma venne
La fatale per voi tutti ultima sera”.
[…]
Pallade allor, che rivestì la
diva,
Alto levò dalla soffitta eccelsa
La funesta ai mortali egida, e
infuse
Ne' superstiti proci immensa
tema.
Saltavan qua e là, come le
agresti
Se allo scaldarsi ed allungar de'
giorni
Le punge il fiero assillo e le
scompiglia.
Ma in quella guisa che avoltori,
il rostro
Ricurvi e l'unghia, piombano,
calando
Dalla montagna, su i minori
augelli,
Che trepidi vorrìano ir vêr le
nubi:
E quei su lor ripiombano e ne
fanno,
Quando difesa non rimane o
scampo,
Strazio e rapina del villano agli
occhi,
Che di tale spettacolo si pasce:
Non altrimenti Ulisse e i tre
compagni
Si scagliavan su i proci, e tale
strage
Ne menavan, che fronte omai non
v'era
Che non s'aprisse sotto i gran
fendenti;
E un gemer tetro alzavasi, e di
nero
Sangue ondeggiava il pavimento tutto.
[…]
Come si vede l’apporto di Atena è fondamentale perché si
attivi la vendetta di Ulisse e Atena è veramente in questo poema l’unica dea
che interviene in modo attivo condizionando l’evoluzione della storia.
La presenza degli dei e il loro operato nell’aiutare gli
eroi delle due fazioni in competizione erano molto più invadenti nell’altro
poema. All’inizio di queste note ho anticipato come nell’Odissea l’azione
divina fosse molto meno influente, ma avevo anche anticipato quale diverso
ruolo rivestisse la donna.
Ne abbiamo viste diverse a partire da Nausicaa ma non ho
ancora mai parlato della figura femminile più importante che è naturalmente Penelope la cara e fedele moglie.
Mi sono ripromesso di parlare di questo personaggio solo
verso la fine delle mie considerazioni sull’Odissea perché merita un discorso
più ampio e particolare. Penelope e la sua tela: in genere è famosa e sempre
ricordata per quest’episodio. Penelope, però, è molto di più, non solo la
moglie fedele che per guadagnare tempo s’inventa l’inganno di tessere di giorno
e disfare di notte la propria opera. Penelope è una madre amorevole che trema
per la sorte del figlio quando questi parte di nascosto alla ricerca del padre;
è una regina accorta e saggia, padrona all’apparenza ma disperata nel proprio
intimo; è una donna salda nei suoi principi e sempre avveduta nelle sue azioni.
Anche quando finalmente l’amato marito si svelerà ai suoi occhi, lei non lo
accetta subito, non lo riconosce pienamente, non si fida e per abbracciarlo nel
riconoscimento finale sciogliendosi in lacrime liberando così l’animo dall’angoscia
che l’ha oppressa per tanti anni, pretenderà che Ulisse le sveli un particolare
del talamo nuziale che solo loro due possono conoscere. Questa di Penelope è,
secondo me, una grande figura: ogni volta che entra in scena si presenta con
compostezza, regalmente e si dimostra un personaggio di elevata statura.
Questa impressione ricevuta nel rileggere, anzi leggere
integralmente l’Odissea, m’induce ancor più a pensare che questo poema sia
stato composto in epoca successiva rispetto all’altro attribuito a Omero con
costumi, abitudini e pensiero più evoluti. Leggiamo ora alcuni brani in cui,
sempre con grande dignità e buonsenso, ci viene presentata Penelope.
Dal libro I
[…]
Nelle superne vedovili stanze
Penelope, d'Icario la prudente
Figlia, raccolse il divin canto,
e scese
Per l'alte scale al basso, e non
già sola,
Ché due seguìanla vereconde
ancelle.
Non fu de' proci nel cospetto
giunta,
Che s'arrestò della dedalea sala
L'ottima delle donne in su la
porta,
Lieve adombrando l'una e l'altra
gota
Co' bei veli del capo, e tra le
ancelle
Al sublime cantor gli accenti
volse:
“Femio”, diss'ella, e lagrimava, “Femio,
Bocca divina, non hai tu nel
petto
Storie infinite ad ascoltar soavi,
Di mortali e di numi imprese
altere,
Per cui toccan la cetra i sacri
vati?
Narra di quelle, e taciturni i
prenci
Le colme tazze vôtino; ma cessa
Canzon molesta che mi spezza il
cuore,
Sempre che tu la prendi in su le
corde;
Il cuor, cui doglia, qual non mai
da donna
Provossi, invase, mentre aspetto
indarno
Cotanti anni un eroe, che tutta
empiéo
Del suo nome la Grecia, e ch'è il
pensiero
De' giorni miei, delle mie notti è il sogno.”
[…]
Dal libro II
[…] Intanto,
Superba, e poi la distessea la
notte
Al complice chiaror di mute faci.
Così un triennio la sua frode
ascose,
E deluse gli Achei. Ma come il
quarto
Con le volubili ore anno
sorvenne,
Noi da un'ancella non ignara
instrutti,
Penelope trovammo, che la bella
Disciogliea tela ingannatrice:
quindi
Compierla dové al fin, benché a dispetto.
[…]
Dal libro IV
[…]
Penelope infelice, a tali accenti
Scioglier sentissi le ginocchia e
il core.
Per lungo spazio la voce
mancolle,
Gli occhi di pianto le s'empièr,
distinta
Non poteale dai labbri uscir
parola:
Rispose al fine: “Araldo, e
perché il figlio
Da me staccossi? Qual cagion,
qual forza
Sospingealo a salir le ratte
navi,
Che destrieri del mar sono, e
l'immensa
Varcano umidità? Brama egli
dunque
“Qual de' due spinto”, il
banditor riprese,
“L'abbia sul mare, a domandar del
padre,
Se la propria sua voglia, o un
qualche nume,
Reina, ignoro”. E sovra l'orme
sue
Ritornò, così detto, il fido
araldo.
Fiera del petto roditrice doglia
Penelope ingombrò; né, perché molti
Fossero i seggi, le bastava il
core
Di posare in alcun; sedea sul
nudo
Limitar della stanza, acuti lai
Mettendo; e quante la servìano
ancelle,
Sì da canuta età, come di bionda,
Ululavano a lei d'intorno tutte.
Ed ella, forte lagrimando: “Amiche,
Uditemi”, dicea. “Tra quante
donne
Nacquero e crebber meco, ambasce
tali
Chi giammai tollerò? Prima un
egregio
Sposo io perdei, d'invitto cor,
fregiato
D'ogni virtù tra i Greci, ed il
cui nome
Per l'Ellada risuona, e tutta l'
Argo.
Poi le tempeste m'involaro il
dolce
Mio parto, in fama non ancor
salito,
E del vïaggio suo nulla io conobbi.
[…]
Dal libro XVII
[…]
Frattanto uscìa della secreta
stanza,
Pari a Dïana e all'aurea Vener pari,
La prudente Penelope, che al caro
Figlio gettò le man, piangendo,
al collo,
E la fronte baciògli ed ambo gli
occhi
Stellanti; e non restandosi dal
pianto:
“Telemaco”, gli disse, “amata
luce,
Venisti adunque! Io non credea
più i lumi,
Fissare in te, dacché una ratta
nave,
Contra ogni mio desir, dietro
alla fama
Del genitor furtivamente a Pilo
T'addusse. Parla: quale incontro avesti?”
[…]
Ma la saggia Penelope, cui giunse
L'annunzio in alto dell'indegno colpo,
Tra le ancelle proruppe in questi accenti:
“Deh così lui d'un de' suoi dardi il nume
Dal famoso d'argento arco ferisca!”
Ed Eurìnome a lei: “Se gl'Immortali
Fesser pieni i miei voti, a un sol de' proci
Non mostrerìasi la nuov'alba in cielo”.
“Nutrice mia”, Penelope riprese,
“Mi spiaccion tutti, perché tutti ingiusti:
Ma del par che la morte Antìnoo abborro.
Move per casa un ospite infelice
Dalla sua fame a mendicar costretto.
Ciascun gli dà, tal ch'ei n'ha il zaino colmo;
E d'Eupite il figliuol d'uno sgabello
Nella punta dell'òmero il percuote”.
Cotesti accenti tra le ancelle assisa
Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse
il suo prandio compiea. Ma la Regina,
Eumèo chiamato a sè: “Va, gli dicea,
De' pastori il più egregio, ed a me invia
Quel forestiere, onde in colloquio io seco
Mi restringa, e richiedagli, se mai
D'Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi.
Ei, che di gran vïaggi uom mi rassembra”.
Ma la saggia Penelope, cui giunse
L'annunzio in alto dell'indegno colpo,
Tra le ancelle proruppe in questi accenti:
“Deh così lui d'un de' suoi dardi il nume
Dal famoso d'argento arco ferisca!”
Ed Eurìnome a lei: “Se gl'Immortali
Fesser pieni i miei voti, a un sol de' proci
Non mostrerìasi la nuov'alba in cielo”.
“Nutrice mia”, Penelope riprese,
“Mi spiaccion tutti, perché tutti ingiusti:
Ma del par che la morte Antìnoo abborro.
Move per casa un ospite infelice
Dalla sua fame a mendicar costretto.
Ciascun gli dà, tal ch'ei n'ha il zaino colmo;
E d'Eupite il figliuol d'uno sgabello
Nella punta dell'òmero il percuote”.
Cotesti accenti tra le ancelle assisa
Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse
il suo prandio compiea. Ma la Regina,
Eumèo chiamato a sè: “Va, gli dicea,
De' pastori il più egregio, ed a me invia
Quel forestiere, onde in colloquio io seco
Mi restringa, e richiedagli, se mai
D'Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi.
Ei, che di gran vïaggi uom mi rassembra”.
Dal libro XVIII
[…]
Così detto, scendea dalle superne
Lucide stanze al basso, e non già sola:
Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo.
Sul limitar della dedàlea sala,
Ove i proci sedean, trovasi appena,
Che arresta il pié tra l'una e l'altra ancella
L'ottima delle donne, e co' sottili
Veli del capo ambo le guance adombra.
Senza forza restaro e senza moto:
L'alma più intenerìa, si raddoppiava
Delle nozze il desire in ogni petto.
Ella queste a Telemaco parole:
“Figlio, io te più non riconosco. Sensi
Nutrivi in mente più maturi e scorti
Nella tua fanciullezza; ed or che grande
Ti veggio, e in un'età più ferma entrato,
Or, che stranier, che a riguardar si fesse
La tua statura e la beltà, te prole
D'uom beato dirìa, più non dimostri
Giustizia o senno. Tollerar sì indegno
Trattamento d'un ospite in tua reggia?
Oltraggio sì crudel, che vendicato
Non siagli, puote a un forestier qui usarsi,
Che su te non ne cada eterno scorno?”
Dal libro XIX
[…]
Udì tutto Penelope, e l'ancella
Sgridò repente: “O temerario petto,
Cagna sfacciata, io pur nelle tue colpe,
Che in testa ricadrannoti, ti colgo.
Sapevi ben, poiché da me l'udisti,
Ch'io lo straniero interrogar volea,
Un conforto cercando in tanta doglia”.
Dopo questo, ad Eurìnome si volse
Con tali accenti: “Eurìnome, uno scanno
Reca, e una pelle, ove, sedendo, m'oda
L'ospite favellargli e mi risponda”.
Disse; e la dispensiera un liscio scanno
Recò in fretta, e giù pose, e d'una densa
Pelle il coprì. Vi s'adagiava il molto
Dai casi afflitto, e non mai domo, Ulisse,
Cui Penelope a dir così prendea:
“Ospite, io questo chiederotti in prima.
Chi? di che loco? e di che stirpe sei?”
[…]
Dal libro XXIII (Il riconoscimento)
[…]
Varcata, entrando, la marmorea soglia,
Da quella parte, contra lui s'assise,
Dinanzi al foco, che su lei raggiava;
Ed ei, poggiato a una colonna lunga,
Sedea con gli occhi a terra, e le parole
Sempre attendea della preclara donna,
Poiché giunti su lui n'eran gli sguardi.
Tacita stette e attonita gran tempo:
Il riguardava con immote ciglia,
E in quel che ravvisarlo ella credea,
Traeanla fuor della notizia antica
Gli abiti vili, onde scorgealo avvolto.
Non si tenne Telemaco, che lei
Forte non rampognasse: “O madre mia,
Madre infelice e barbara consorte,
Perché così dal genitor lontana?
Ché non siedi appo lui? ché non gli parli?
Null'altra fôra così fredda e schiva
Con marito alla patria, ed a lei giunto
Dopo guai molti nel ventesim'anno.
Ma una pietra per cuore a te sta in petto”.
[…]
Crucciato ei replicò: “Donna, parola
T'usci da' labbri fieramente amara.
Chi altrove il letto collocommi? Dura
Al più saputo tornerìa l'impresa.
Solo un nume potrebbe agevolmente
Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno,
Benché degli anni in sul fiorir, di loco
Mutar potrìa senza i maggiori sforzi
Letto così ingegnoso, ond'io già fui,
Né compagni ebbi all'opra, il dotto fabbro.
Bella d'olivo rigogliosa pianta
Sorgea nel mio cortile, i rami larga,
E grossa molto, di colonna in guisa.
Io di commesse pietre ad essa intorno
Mi architettai la maritale stanza,
E d'un bel tetto la coversi, e salde
Porte v'imposi e fermamente attate.
Poi, vedovata del suo crin l'oliva,
Alquanto su dalla radice il tronco
Ne tagliai netto, e con le pialle sopra
Vi andai leggiadramente, v'adoprai
La infallibile squadra e il succhio acuto.
[…]
Questo fu il colpo che i suoi dubbi tutti
Vincitore abbatté. Pallida, fredda,
Mancò, perdé gli spiriti e disvenne.
Poscia corse vêr lui dirittamente,
Disciogliendosi in lagrime; ed al collo
Ambe le braccia gli gettava intorno,
E baciavagli il capo e gli dicea:
“Ah! tu con me non t'adirare, Ulisse,
Che in ogni evento ti mostrasti sempre
Degli uomini il più saggio. Alla sventura
Condannavanci i numi, a cui non piacque
Che de' verdi godesse anni fioriti
L'uno appo l'altro, e quindi a poco a poco
L'un vedesse imbiancar dell'altro il crine.
Ma, se il mirarti e l'abbracciarti un punto
Per me non fu, tu non montarne in ira.
Sempre nel caro petto il cor tremavami,
Non venisse a ingannarmi altri con fole:
Ché astuzie ree covansi a molti in seno.
[…]
Ma tu mi desti della tua venuta
Certissimo segnale: il nostro letto,
Che nessun vide mai, salvo noi due,
E Attoride la fante, a me già data
Dal padre mio, quand'io qua venni, e a cui
Dell'inconcussa nuzïale stanza
Le porte in guardia son, tu quello affatto
Mi descrivesti; e al fin pieghi il mio core,
Ch'esser potrìa, nol vo' negar, più molle”.
A questi detti s'eccitò in Ulisse
Desìo maggior di lagrime. Piagnea,
Sì valorosa donna e sì diletta
Stringendo al petto. E il cor di lei qual era?
Come ai naufraghi appar grata la terra
Se Nettuno fracassò nobile nave,
Che i vasti flutti combatteano e i venti,
Tanto che pochi dal canuto mare
Scampâr nôtando a terra e con le membra
Di schiuma e sal tutte incrostate, e lieti
Su la terra montâr, vinto il periglio:
Così gioìa Penelope, il consorte
Mirando attenta, né staccar sapea
Le braccia d'alabastro a lui dal collo.
[…]
Dal libro XXIV
Sol trovò il genitor, che ad una pianta
Curvo zappava intorno. Il ricoprìa
Tunica sozza ricucita e turpe:
Dalle punture degli acuti rovi
Le gambe difendevan gli schinieri
Di rattoppato cuoio e le man guanti:
Ma berretton di capra in su la testa
Portava il vecchio; e così ei la doglia
Nutriva ed accrescea nel caro petto.
Tosto che Ulisse l'avvisò dagli anni
Suoi molti, siccom'era, e da' suoi molti
Mali più ancor, che dall'età, consunto,
Lagrime, stando sotto un alto pero,
Dalle ciglia spandea.
[…]
Ulisse tutto commoveasi dentro,
E un acre si sentìa pungente spirto
Correre alle narici, il caro padre
Mirando attento: al fin su lui gittossi,
E stretto il si recava in fra le braccia,
E il baciava più volte, e gli dicea:
“Quell'io, padre, quell'io, che tu sospiri,
Ecco nel ventesmo anno in patria venni.
Cessa dai pianti, dai lamenti cessa,
E sappi in breve, perché il tempo stringe,
Ch'io tutti i proci uccisi, e vendicai
Tanti e sì gravi torti in un dì solo”.
“Ulisse tu?” così Laerte tosto,
“Tu il figlio mio? Dammene un segno, e tale,
Che in forse io non rimanga un solo istante”.
[…]
Quali dar gli potea segni più chiari?
Laerte, a cui si distemprava il core,
E vacillavan le ginocchia, avvolse
Subito ambe le mani al collo intorno
Del figlio; e il figlio lui, ch'era di spirti
Spento affatto, a sé prese ed il sostenne.
[…]
Cagna sfacciata, io pur nelle tue colpe,
Che in testa ricadrannoti, ti colgo.
Sapevi ben, poiché da me l'udisti,
Ch'io lo straniero interrogar volea,
Un conforto cercando in tanta doglia”.
Dopo questo, ad Eurìnome si volse
Con tali accenti: “Eurìnome, uno scanno
Reca, e una pelle, ove, sedendo, m'oda
L'ospite favellargli e mi risponda”.
Disse; e la dispensiera un liscio scanno
Recò in fretta, e giù pose, e d'una densa
Pelle il coprì. Vi s'adagiava il molto
Dai casi afflitto, e non mai domo, Ulisse,
Cui Penelope a dir così prendea:
“Ospite, io questo chiederotti in prima.
Chi? di che loco? e di che stirpe sei?”
[…]
Dal libro XXIII (Il riconoscimento)
[…]
Varcata, entrando, la marmorea soglia,
Da quella parte, contra lui s'assise,
Dinanzi al foco, che su lei raggiava;
Ed ei, poggiato a una colonna lunga,
Sedea con gli occhi a terra, e le parole
Sempre attendea della preclara donna,
Poiché giunti su lui n'eran gli sguardi.
Tacita stette e attonita gran tempo:
Il riguardava con immote ciglia,
E in quel che ravvisarlo ella credea,
Traeanla fuor della notizia antica
Gli abiti vili, onde scorgealo avvolto.
Non si tenne Telemaco, che lei
Forte non rampognasse: “O madre mia,
Madre infelice e barbara consorte,
Perché così dal genitor lontana?
Ché non siedi appo lui? ché non gli parli?
Null'altra fôra così fredda e schiva
Con marito alla patria, ed a lei giunto
Dopo guai molti nel ventesim'anno.
Ma una pietra per cuore a te sta in petto”.
[…]
Crucciato ei replicò: “Donna, parola
T'usci da' labbri fieramente amara.
Chi altrove il letto collocommi? Dura
Al più saputo tornerìa l'impresa.
Solo un nume potrebbe agevolmente
Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno,
Benché degli anni in sul fiorir, di loco
Mutar potrìa senza i maggiori sforzi
Letto così ingegnoso, ond'io già fui,
Né compagni ebbi all'opra, il dotto fabbro.
Bella d'olivo rigogliosa pianta
Sorgea nel mio cortile, i rami larga,
E grossa molto, di colonna in guisa.
Io di commesse pietre ad essa intorno
Mi architettai la maritale stanza,
E d'un bel tetto la coversi, e salde
Porte v'imposi e fermamente attate.
Poi, vedovata del suo crin l'oliva,
Alquanto su dalla radice il tronco
Ne tagliai netto, e con le pialle sopra
Vi andai leggiadramente, v'adoprai
La infallibile squadra e il succhio acuto.
[…]
Questo fu il colpo che i suoi dubbi tutti
Vincitore abbatté. Pallida, fredda,
Mancò, perdé gli spiriti e disvenne.
Poscia corse vêr lui dirittamente,
Disciogliendosi in lagrime; ed al collo
Ambe le braccia gli gettava intorno,
E baciavagli il capo e gli dicea:
“Ah! tu con me non t'adirare, Ulisse,
Che in ogni evento ti mostrasti sempre
Degli uomini il più saggio. Alla sventura
Condannavanci i numi, a cui non piacque
Che de' verdi godesse anni fioriti
L'uno appo l'altro, e quindi a poco a poco
L'un vedesse imbiancar dell'altro il crine.
Ma, se il mirarti e l'abbracciarti un punto
Per me non fu, tu non montarne in ira.
Sempre nel caro petto il cor tremavami,
Non venisse a ingannarmi altri con fole:
Ché astuzie ree covansi a molti in seno.
[…]
Ma tu mi desti della tua venuta
Certissimo segnale: il nostro letto,
Che nessun vide mai, salvo noi due,
E Attoride la fante, a me già data
Dal padre mio, quand'io qua venni, e a cui
Dell'inconcussa nuzïale stanza
Le porte in guardia son, tu quello affatto
Mi descrivesti; e al fin pieghi il mio core,
Ch'esser potrìa, nol vo' negar, più molle”.
A questi detti s'eccitò in Ulisse
Desìo maggior di lagrime. Piagnea,
Sì valorosa donna e sì diletta
Stringendo al petto. E il cor di lei qual era?
Come ai naufraghi appar grata la terra
Se Nettuno fracassò nobile nave,
Che i vasti flutti combatteano e i venti,
Tanto che pochi dal canuto mare
Scampâr nôtando a terra e con le membra
Di schiuma e sal tutte incrostate, e lieti
Su la terra montâr, vinto il periglio:
Così gioìa Penelope, il consorte
Mirando attenta, né staccar sapea
Le braccia d'alabastro a lui dal collo.
[…]
Come si vede la saggia Penelope ha preteso una prova inconfutabile
per sciogliersi finalmente in pianto e gettarsi nelle braccia dell’amato.
Per Ulisse i riconoscimenti sono ormai giunti al
termine: l’unico ancora ignaro dl suo ritorno è il vecchio padre Laerte. Costui
non potendo sopportare l’oltraggio all’amata Penelope, alla sua reggia e ai
suoi beni da parte dei proci si è ritirato in campagna dove vive coltivando la
terra e sospirando per la lontananza e il mancato ritorno del caro Ulisse. Anche in
questo caso Omero sa trovare gli accenti giusti per descrivere l’incontro tra
padre e figlio. Leggiamo parte del brano tratto dall'ultimo libro del poema.Dal libro XXIV
Sol trovò il genitor, che ad una pianta
Curvo zappava intorno. Il ricoprìa
Tunica sozza ricucita e turpe:
Dalle punture degli acuti rovi
Le gambe difendevan gli schinieri
Di rattoppato cuoio e le man guanti:
Ma berretton di capra in su la testa
Portava il vecchio; e così ei la doglia
Nutriva ed accrescea nel caro petto.
Tosto che Ulisse l'avvisò dagli anni
Suoi molti, siccom'era, e da' suoi molti
Mali più ancor, che dall'età, consunto,
Lagrime, stando sotto un alto pero,
Dalle ciglia spandea.
[…]
Ulisse tutto commoveasi dentro,
E un acre si sentìa pungente spirto
Correre alle narici, il caro padre
Mirando attento: al fin su lui gittossi,
E stretto il si recava in fra le braccia,
E il baciava più volte, e gli dicea:
“Quell'io, padre, quell'io, che tu sospiri,
Ecco nel ventesmo anno in patria venni.
Cessa dai pianti, dai lamenti cessa,
E sappi in breve, perché il tempo stringe,
Ch'io tutti i proci uccisi, e vendicai
Tanti e sì gravi torti in un dì solo”.
“Ulisse tu?” così Laerte tosto,
“Tu il figlio mio? Dammene un segno, e tale,
Che in forse io non rimanga un solo istante”.
[…]
Quali dar gli potea segni più chiari?
Laerte, a cui si distemprava il core,
E vacillavan le ginocchia, avvolse
Subito ambe le mani al collo intorno
Del figlio; e il figlio lui, ch'era di spirti
Spento affatto, a sé prese ed il sostenne.
[…]
E siamo ormai giunti alla fine: tutti hanno saputo del
ritorno di Ulisse ma incombe la ritorsione per la strage dei proci. L'eroe è
pronto a combattere ancora e dà inizio a una nuova battaglia.
Questo clima di continua guerra tra gli umani, però, non è più
gradito al sommo Zeus. Tramite la sua devota figlia Atena, partorita da lui
stesso e come tale aventi caratteristiche femminili e maschili allo stesso
tempo, ordina che si ponga fine alle ostilità. Il poema, quindi, si chiude
sulla figura dell’onnipresente Atena che ormai è consacrata la più importante
tra le dee dell’intero pantheon greco. Questo, secondo me, è un altro segno che
l’Odissea sia concepita in un’epoca posteriore: Atena, infatti, è la divinità
protettrice di Atene la città che ormai a buon diritto è considerata, tra tutte
le città greche, quella di maggior spessore in ogni campo.
Leggiamo gli ultimi versi del poema.
..........................................Ulisse
Con un urlo, che andò sino alle stelle,
Inseguìa ratto i fuggitivi, a guisa
D'aquila tra le nubi altovolante.
Se non che Giove il fulmine contorse;
E alla Sguardoazzurrina innanzi ai piedi
Cascò l'eterea fiamma: “O generoso”,
Così la diva, “di Laerte figlio,
Contienti e frena il desiderio ardente
Della guerra, che a tutti è sempre grave,
Non contro a te di troppa ira s'accenda
L'ampia veggente di Saturno prole”.
Obbedì Ulisse e s'allegrò nell'alma.
Ma eterno poi tra le due parti accordo
La figlia strinse dell'Egìoco Giove
Che a Mentore nel corpo e nella voce
Rassomigliava, la gran dea d'Atene.
Dopo questo lungo discorso che dire di più? Rileggere l'Odissea è stato un grande piacere: Omero sa sondare tutti i tasti dell'animo umano e si può solo che rimanere meravigliati da tanta inventiva, capacità introspettiva e narrativa fuori dal comune. E sto parlando di un libro scritto tremila anni fa.
Certo, Ulisse è l'uomo alla ricerca di qualcosa che gli sfugge secondo me adombra il processo della ricerca di se stesso, casa, famiglia, figlio... cane. Solo attraverso le faticose avventure esperienze paurose o piacevoli quanto effimere distrazioni, ritrova la pace. Questo racconto è il percorso della psiche umana di quegli uomini inquieti - gli inglesi chiamavano spleen - che affrontavano viaggi pericolosi anche a rischio della vita, non soltanto per la curiosità di vedere il mondo ma per darsi una prova. Ma che avrebbe fatto Ulisse sennò? Uno psicanalista ci trova tutto, e i Greci lo erano, eccome!
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