Eneide

Dopo aver parlato dell’Odissea, si potrebbe considerare chiusa la lettura dell’epica più antica ma quella greca, anche se alla base di tutta la nostra cultura occidentale, non è la sola. Perché non considerare saghe più lontane da noi sia nel tempo che nello spazio? Alcune di esse sono anche più antiche e sicuramente ugualmente affascinanti. Mi riferisco, ad esempio, ai poemi mesopotamici tra cui spicca per fama e importanza Gilgamesh. Non so, però, se sia possibile trovare questo poema tradotto in italiano e se sarei in grado di affrontare una cosa così lontana da me. Ma non solo il Gilgamesh, altrettanto validi ed interessanti sono i due massimi poemi epici indiani, il Rāmāyana ed il Mahābhārata. Quest’ultimo poi è di una lunghezza eccessiva anche per un lettore accanito come me. Credo che la sua lunghezza sia pari a tre o quattro volte quella della nostra Bibbia. Questo paragone mi ricorda che anche il testo ebraico potrebbe rientrare nel discorso che sto facendo.  Non era, d’altra parte, mia intenzione fare un discorso esaustivo per cui, pur riconoscendo l’importanza (in special modo religiosa) e la bellezza dei testi citati, mi limiterò a restare in campi a noi più vicini e congeniali e che possono essere affrontati con un minimo di preparazione.
Tutte queste chiacchiere per dire che, facendo un piccolo salto spazio temporale, passerò direttamente dall’Odissea all’Eneide che ne è, in un certo senso, la parente più stretta e la naturale continuazione. Anzi, ancor di più, i poemi omerici rappresentano il modello di base su cui si fonda il racconto delle gesta di Enea, storia che ci riguarda molto da vicino. Ciò che distingue le tre opere è, oltre alla lingua, le conoscenze che abbiamo del tempo in cui sono state scritte e dei due autori: da una parte abbiamo Omero (ma chi era costui? Un personaggio vero? È mai esistito?) dall’altra il poeta romano Virgilio di cui conosciamo pressoché tutto.
Questo è vissuto in un periodo storico notevolmente posteriore e occupa un posto di assoluta preminenza nella letteratura latina. Nacque a Mantova nel 70 a.C. e morì a Brindisi nel 19 a. C. Oltre che per l’Eneide è famoso anche per le Bucoliche e le Georgiche. Il periodo in cui visse fu per Roma un periodo di grandi stravolgimenti: la guerra civile, l’ascesa di Giulio Cesare come figura predominante e infine il passaggio da repubblica a impero con Ottaviano Augusto. Roma è ormai una grande potenza che ha conquistato tutta l’area mediterranea: ha esportato nelle zone annesse la sua organizzazione di vita, i principi del diritto, le grandi opere d’ingegneria quali strade e acquedotti ma aveva ancora molto da imparare in campo culturale. Sotto questo punto di vista si comportò modestamente e con grande intelligenza fece suo il pensiero greco e si fece catturare dall’arte, la filosofia, la letteratura. Perfino in campo religioso si adeguò: gli dei romani furono associati a quelli greci senza, però, dimenticare le proprie tradizioni e i propri riti. Per fare un esempio della sovrapposizione tra le due culture religiose riferirsi a Giove è come dire Zeus, Minerva sta per Atena e così per tutti gli altri dei.
Naturalmente Virgilio, figlio della propria epoca, risente e assimila tutto ciò. Volendo adulare il novello imperatore e fornire a Roma dei nobili natali non trova fonte d’ispirazione migliore che i poemi omerici. Il suo eroe Enea è un troiano superstite fuggito dalla città in fiamme su comando degli dei perché a lui spetta un grande e nobile compito. Egli è figlio di una dea, la dea dell’amore e della bellezza, Afrodite, Venere in latino, e nell’abbandonare Troia porta con sé sulle spalle il padre Anchise e il giovane figlio Ascanio. Costui, chiamato anche Iulo giungerà con il padre alle rive del Tevere dando origine, così, alla stirpe dalla quale discenderanno i fondatori di Roma.


In questo modo, Virgilio, facendo discendere i Romani da una dea e motivando la fondazione della città per il volere del sommo Giove nobilita la città, che diventerà caput mundi, e il suo principe appartenente alla gens Iulia. Il poeta precorre così quello che sarà consueto nei secoli a venire: scrivere una grande opera, dedicarla al signore e nobilitarne la famiglia. E questo non solo in letteratura ma in ogni manifestazione artistica, esempio tutti i vari monumenti che riportano gli stemmi dei finanziatori dell’opera. Una forma di pubblicità anche questa che si è conservata sino ai giorni nostri.

Ho già detto che Virgilio, nello scrivere l’Eneide, si è ispirato ed ha ricalcato il modello dei poemi omerici. Diciamo subito due parole sull’argomento, cercando di fare dei semplici paragoni. L’opera virgiliana è costituita di dodici libri contro i ventiquattro dell’Iliade e dell’Odissea ma, ciò malgrado e occorre sottolinearlo, essa è divisa in due parti distinte ognuna delle quali s’ispira principalmente a uno dei due poemi omerici. I primi sei libri riguardano le peregrinazioni di Enea, compreso un viaggio nell’Averno, e quindi seguono da vicino le vicende narrate nell’Odissea; la seconda parte, invece, è strutturata similmente all’Iliade: Enea, ormai giunto in Italia, deve affrontare le popolazioni autoctone per potersi imporre. Negli ultimi sei libri sono quindi narrate le vicende delle battaglie contro Turno re dei Rutuli.
Leggiamo subito l'incipit per conoscere cosa ci verrà raccontato. (nella traduzione in versi di Giuseppe Albini).
Virgilio tra le Muse Clio (poesia epica) e Melpomene (tragedia).

L'armi e l'uom canto che dal suol di Troia
primo in Italia profugo per fato
alle lavinie prode venne, molto
e per terre sbattuto e in mar da forza
ei de' Celesti per la memore ira
de la crudel Giunone, e molto ancora
provato in guerra, fin ch'ebbe fondata
la città e gli Dei posti nel Lazio,
onde il Latino genere e gli Albani
padri e le mura de l'eccelsa Roma.
Musa, le cause narrami, per quale
sfregio a sua deità, di che dogliosa,
la Regina de' Numi un uom costrinse
di pietà sí preclaro a correr tante
vicende, a incontrar tanti travagli:
e son sí grandi in cuor divino l'ire?

[...]

Come Virgilio ci preannuncia, nell’Eneide gli dei hanno grande rilievo: fin dal primo libro ci vengono presentate le invidie, le dispute e le simpatie delle dee, le quali condizionano gli eventi. Il povero Giove deve sempre intervenire per soddisfare o minacciare l’una o l’altra delle contendenti ma, anche lui che è il sommo capo di tutti gli dei, deve piegarsi e nulla può fare su ciò che è stabilito dal fato ancora più potente di lui stesso. 

Continua...


Giunone
Venere
Le due divinità in conflitto tra loro nel poema virgiliano sono, come il solito direi, Giunone e Venere. La prima, per la nota ragione, odia da sempre i troiani e non vuole che la loro stirpe fondi Roma che distruggerà Cartagine, città che ama e protegge.
L’altra dea è coinvolta direttamente: si tratta di difendere la gloria che deriverà al figlio Enea come risarcimento per la distruzione di Troia.
Per questa ragione invia Amore a Cartagine per far sì che la regina Didone s’innamori perdutamente di Enea che approda esule nel suo regno . Didone è il primo bellissimo personaggio di una mirabile serie che Virgilio introduce nella sua opera: questa regina ricorda, a mio parere e con le dovute differenze, la Penelope dell’Odissea. La stessa saggezza, dignità, bellezza e amante fedele. Purtroppo, il fato non le riserva una bella sorte. Enea ricambia l’amore con trasporto e passione ma non può trascurare la propria missione e quindi, anche se con enorme dispiacere, sarà costretto ad abbandonare l’amata. Didone non regge al dolore causato dalla nuova perdita e si uccide mentre Enea si allontana da Cartagine con la sua esigua flotta. S’incontreranno di nuovo ma nell’Averno dove Enea scenderà da vivo: lei, pur chiamata dall’amato, non risponde e sdegnosa si dirige verso il luogo ove si trova il marito, unico e vero amore.

Leggiamo alcuni brani su Didone perché veramente meritevoli di attenzione. 

Apparizione di Didone (dal 1°libro. Traduzione Giuseppe Albini)

[...]
Mentre al dardanio Enea si scopron queste
Pietro Bardellino. Enea al cospetto di Didone
maraviglie, mentr'ei si sta rapito
e fiso a contemplarle, al tempio è mossa
la regina bellissima Didone,
da florido corteggio accompagnata.
Quale in riva a l'Eurota o per i gioghi
del Cinto i cori esercita Dïana,
cui cerchian mille Orèadi seguaci;
essa a le spalle ha la faretra e andando
sopravanza le ninfe tuttequante;
tenta il cuor di Latona occulta gioia:
tale era Dido, tale procedea
luminosa tra' suoi, invigilando
al fondamento de' futuri regni.
Poi de la Diva su le soglie, sotto
la volta sacra, in mezzo, d'armi cinta
e salita sul trono alto, si assise.
Dettava a' suoi ragioni e leggi, ed equa
partiva o sorteggiava le fatiche;

[...]

La passione di Didone (dal 4°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...]

Arde Dido infelice, e furïosa
per tutta la città s'aggira e smania:
qual ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidïoso arcier fugge lo strale
che l'ha già colta; e seco, ovunque vada,
lo porta al fianco infisso. Or a diporto
va con Enea per la città, mostrando
le fabbriche, i disegni e le ricchezze
del suo novo reame; or disïosa
di scoprirgli il suo duol, prende consiglio:
poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va dechinando, a convivar ritorna,
e di nuovo a spïar de gli accidenti
e de' fati di Troia, e nuovamente
pende dal volto del facondo amante.
Tolti da mensa, allor che notte oscura
in disparte gli tragge, e che le stelle
sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente, in solitudine ridotta,
ritirata da gli altri, è sol con lui
che le sta lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta Ascanio, il pargoletto figlio
per sembianza del padre in grembo accolto,
tenta, se cosí può, l'ardente amore
o spegnere, o scemare, o fargli inganno.
[...]
Dipinto di Francesco Paolo Argentieri, “Enea e Didone”
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo s'accolse.
Diè, di quel che seguí, la terra segno
e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fûr de le nozze lor le faci e i canti;
testimoni assistenti e consapevoli
sol ne fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon le ninfe. Il primo giorno
fu questo, e questa fu la prima origine
di tutti i mali, e de la morte alfine
de la Regina; a cui poscia non calse
né de l'indegnità, né de l'onore,
né de la secretezza. Ella si fece
moglie chiamar d'Enea; con questo nome
ricoverse il suo fallo; e di ciò tosto

per le terre di Libia andò la Fama.
[...]

Didone sconvolta rimprovera Enea (dal 4°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...]
Ma Didon del tratto
tosto s'avvide: e che non vede amore?
Ella pria se n'accorse; ch'ogni cosa
temea, benché secura. E già la stessa
Fama importunamente le rapporta
armarsi i legni, esser i Teucri accinti
a navigare. Onde d'amore e d'ira
accesa, infurïata, e fuori uscita
di se medesma, imperversando scorre
per tutta la città. Quale a i notturni
gridi di Citeron Tïade, allora
che 'l trïennal di Bacco si rinnova,
nel suo moto maggior si scaglia e freme,
e scapigliata e fiera attraversando,
e mugolando al monte si conduce;
tal era Dido, e da tal furia spinta
Enea da sé con tai parole assalse:
«Ah perfido! Celar dunque sperasti
una tal tradigione, e di nascosto
partir de la mia terra? E del mio amore,
de la tua data fé, di quella morte
che ne farà la sfortunata Dido,
punto non ti sovviene, e non ti cale?
Forse che non t'arrischi in mezzo al verno
tra' piú fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele! Or che faresti, se straniere
non ti fosser le terre, ignoti i lochi
che tu procuri? E che faresti, quando
fosse ancor Troia in piede? A Troia andresti
di questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh! per queste mie lagrime, per quello
che tu della tua fé pegno mi desti
(poiché a Dido infelice altro non resta
che a sé tolto non aggia), per lo nostro
marital nodo, per l'imprese nozze,
per quanti ti fei mai, se mai ti fei
commodo o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti unqua da me; ti priego ch'abbi
pietà del dolor mio, de la ruina
che di ciò m'avverrebbe; e (se piú luogo
han le preci con te) che tu del tutto
lasci questo pensiero. Io per te sono
in odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
a' miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo a morte mi lasci, ospite mio?
ch'ospite sol mi resta di chiamarti,
di marito che m'eri. E perché deggio,
lassa, viver io piú? Per veder forse
che 'l mio fratel Pigmalïon distrugga
queste mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in servitú m'adduca? Almeno avanti
la tua partita avess'io fatto acquisto
d'un pargoletto Enea che per le sale
mi scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser non mi parrebbe abbandonata,
né delusa del tutto».
[...]

Ella, mentre dicea, crucciata e torva
lo rimirava, e volgea gli occhi intorno
senza far motto. Alfin, da sdegno vinta
cosí proruppe: «Tu, perfido, tu
sei di Venere nato? Tu del sangue
di Dardano? Non già; ché l'aspre rupi
ti produsser di Caucaso, e l'Ircane
tigri ti fûr nutrici. A che tacere?
Il simular che giova? E che di meglio
ne ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti
ha mai questo crudel tratto un sospiro,
o gittata una lagrima, o pur mostro
atto o segno d'amore, o di pietade?
Di che prima mi dolgo? di che poi?
Ah! che né Giuno omai, né Giove stesso
cura di noi: né con giust'occhi mira
piú l'opre nostre. Ov'è qua giú piú fede?
E chi piú la mantiene? Era costui
dianzi nel lito mio naufrago, errante,
mendíco. Io l'ho raccolto, io gli ho ridotti
i suoi compagni, e i suoi navili insieme,
ch'eran morti e dispersi; ed io l'ho messo
(folle!) a parte con me del regno mio,
e di me stessa. Ahi, da furor, da foco
rapir mi sento! Ora il profeta Apollo,
or le sorti di Licia, ora un araldo,
che dal ciel gli si manda, a gran faccende
quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo
di ciò gli dèi. D'un gran travaglio è questo
a lor quïete. Or va', che per innanzi
piú non ti tegno, e piú non ti contrasto.
Va' pur, segui l'Italia, acquista i regni
che ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi
son pietosi, e se ponno, io spero ancora
che da' vènti e da l'onde e da gli scogli
n'avrai degno castigo; e che piú volte
chiamerai Dido, che lontana ancora
co' neri fuochi suoi ti fia presente:
e tosto che di morte il freddo gelo
l'anima dal mio corpo avrà disgiunta,
passo non moverai che l'ombra mia
non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
ricompensa a' tuoi merti, e ne l'inferno
tosto me ne verrà lieta novella».
[...]

La morte di Didone (dal 4°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...]
Dido nel suo pensiero immane e fiero
fieramente ostinata, in atto prima
di paventosa, poi di sangue infetta
le torve luci, di pallore il volto,
e tutta di color di morte aspersa,
se n'entrò furïosa ove secreto
era il suo rogo a l'aura apparecchiato.
Sopra vi salse; e la dardania spada,
ch'ebbe da lui non a tal uso in dono,
distrinse: e rimirando i frigi arnesi
e 'l noto letto, poich'in sé raccolta
lagrimando e pensando alquanto stette,
sopra vi s'inchinò col ferro al petto,
e mandò fuor quest'ultime parole:
«Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care
a voi rendo io quest'anima dolente.
Voi l'accogliete: e voi di questa angoscia
mi liberate. Ecco, io son giunta al fine
de la mia vita, e di mia sorte il corso
ho già compito. Or la mia grande imago
n'andrà sotterra: e qui di me che lascio?
Fondata ho pur questa mia nobil terra;
viste ho pur le mie mura; ho vendicato
il mio consorte; ho castigato il fiero
mio nimico fratello. Ah, che felice,
felice assai morrei, se a questa spiaggia
giunte non fosser mai vele troiane!»
E qui su 'l letto abbandonossi, e 'l volto
vi tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque
morrò senza vendetta? Eh, che si muoia,
comunque sia. Cosí, cosí mi giova
girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre meco era, il mio foco non vide,
veggalo di lontano; e 'l tristo augurio
de la mia morte almen seco ne porte».
Avea ciò detto, quando le ministre
la vider sopra al ferro il petto infissa,
col ferro e con le man di sangue intrise
spumante e caldo. [...]

Enea incontra Didone nell'Ade (dal 6°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...]
Era con queste la fenissa Dido,
che, di piaga recente il petto aperta,
per la gran selva spazïando andava.
Tosto che le fu presso, Enea la scòrse
per entro a l'ombre, qual chi vede o crede
veder tal volta infra le nubi e 'l chiaro
la nova luna, allor che i primi giorni
del giovinetto mese appena spunta;
e di dolcezza intenerito il core,
dolcemente mirolla e pianse e disse:
«Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera
quell'empia che di te novella udii,
che col ferro finisti i giorni tuoi?
Ah, ch'io cagion ne fui! Ma per le stelle,
per gli superni dèi, per quanta fede
ha qua giú, se pur v'ha, donna, ti giuro
che mal mio grado dal tuo lito sciolsi.
Fato, fato celeste, imperio espresso
fu del gran Giove, e quella stessa forza,
che da l'eteria luce a questi orrori
de la profonda notte or mi conduce,
che da te mi divelse; e mai creduto
ciò di me non avrei, che 'l partir mio
cagion ti fosse ond'a morir ne gissi.
Ma ferma il passo, e le mie luci appaga
de la tua vista. Ah, perché fuggi? e cui?
Quest'è l'ultima volta, ohimè! che 'l fato
mi dà ch'io ti favelli, e teco sia».
Cosí dicendo e lagrimando intanto
placar tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una sol volta disdegnosa e torva
lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra,
o con gli omeri vòlta, a i detti suoi
stette qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin, mentre dicea, come nimica
gli si tolse davanti, e ne la selva
al suo caro Sichèo, cui fiamma uguale
e par cura accendea, si ricondusse.
[...]

Questo passo del sesto libro conclude le vicende di Didone. abbandonata dal pio Enea perché costretto dal fato a continuare la sua missione. Questa gli sarà indicata dal padre Anchise, anche lui ormai nell'Ade, ed ecco spiegato il motivo per cui l'eroe è costretto a intraprendere l'oscuro viaggio a cui è dedicato l'intero libro sesto. Entrare nell'oltretomba, però, non è cosa da tutti. Enea, per poterlo fare, dovrà appellarsi alla sibilla Cumana, sacerdotessa del dio Apollo da sempre protettore dei troiani. Se Virgilio ha preso lo spunto del viaggio nell'Ade da quello omerico di Ulisse, ancor di più possiamo dire che Dante si sia ispirato a Virgilio: d'altra parte non lo nasconde e lo sceglie come suo maestro e duce. E quindi in questo libro dell'Eneide ritroviamo elementi che sono ben noti ai lettori dell'inferno dantesco: abbiamo infatti il fiume Acheronte e il traghettatore delle anime Caronte, Minosse che stabilisce la pena, la foresta pietrificata con tutti gli alberi stecchiti abitata dalle orrende Arpie e via dicendo. La guida dell'eroe di Virgilio è la sibilla ma anche questa avrà bisogno dell'aiuto di Apollo ed Enea, inoltre, per poter entrare dovrà prima trovare il ramo d'oro da portare in dono alla Giunone dell'Averno, Proserpina, sposa del dio Dite che regna sovrano nell'oltretomba.
Il ramo d'oro ricorre in altre leggende, conosciute anche dagli etruschi e tutte di provenienza italica. Basti pensare, infatti, all'importanza del ramo d'oro nel culto di Diana Nemorensis, dea della fitta ed oscura foresta di Aricia, foresta situata tra i due laghi laziali di Albano e Nemi. Anche in questa leggenda occorre spezzare un ramo di una pianta (probabilmente vischio) per ottenere il privilegio di provare ad uccidere il vecchio sacerdote del bosco e divenire così il nuovo rex nemorensis.
Tutte le porte dell'Averno si potranno aprire ad Enea solo con l'ausilio del ramo d'oro. Leggiamo due brani dal libro sesto (trad. A. Caro) su questo argomento.

Enea e il ramo d'oro (dal 6°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...]
Cosí pregando avea le braccia avvinte
al sacro altare, allor che la Sibilla
a dir riprese: Enea, germe del cielo,
lo scender ne l'Averno è cosa agevole
ché notte e dí ne sta l'entrata aperta;
ma tornar poscia a riveder le stelle,
qui la fatica e qui l'opra consiste.
Questo a pochi è concesso, ed a quei pochi
ch'a Dio son cari, o per uman valore
se ne poggiano al cielo. A questi è dato
come a' celesti. Il loco tutto in mezzo
è da selve intricato, e da negre acque
de l'infernal Cocíto intorno è cinto.
Ma se tanto disio, se tanto amore
t'invoglia di veder due volte Stige
e due volte l'abisso, e soffrir osi
un cosí grave affanno, odi che prima
oprar convienti. È ne la selva opaca,
tra valli oscure e dense ombre riposto
e ne l'arbore stesso un lento ramo
con foglie d'oro, il cui tronco è sacrato
a Giuno inferna: e chi seco divelto
questo non porta, ne' secreti regni
penetrar di Plutone unqua non pote.
Ciò la bella Prosèrpina comanda,
che per suo dono il chiede; e svèlto l'uno,
tosto l'altro risorge, e parimente
ha la sua verga e le sue chiome d'oro.
Entra nel bosco, e con le luci in alto
lo cerca, il trova, e di tua man lo sterpa;
ch'agevolmente sterperassi, quando
lo ti consenta il fato. In altra guisa
né con man, né con ferro, né con altra
umana forza mai fia che si schianti,
o che si tronchi. 
[...]                  Il frigio duce
fra le sue schiere di bipenne armato
a par degli altri, e piú di tutti ardente,
di propria mano adoperando, a l'opra
esortava i compagni; e fra se stesso
pensoso, inverso il bosco il guardo inteso,
cosí pregava: «Oh se quel ramo d'oro
ne si scoprisse in questa selva intanto,
come n'ha la Sibilla, ahimè, pur troppo
di te, Miseno, annunzïato il vero!»
Ciò disse a pena, ed ecco da traverso
due colombe venir dal ciel volando,
ch'avanti a lui sul verde si posaro.
Conobbe il magno eroe le messaggiere
de la sua madre, e lieto orando: «O, - disse, -
siatemi guide voi, materni augelli,
s'a ciò sentier si truova; ite per l'aura
drizzando il nostro corso, ov'è de l'ombra
del prezïoso arbusto il bosco opaco.
E tu, madre benigna, in sí dubbioso
passo, del lume tuo ne porgi aíta».
E, ciò detto, fermossi. Elle pascendo,
andando, saltellando, a scosse, a volo,
quanto l'occhio scorgea, di mano in mano
giunsero ove d'Averno era la bocca:
 e 'l tetro alito suo schivando, in alto
ratte l'ali spiegaro, e dal ciel puro
al desïato loco in giú rivolte,
si posâr sopra a la gemella pianta;
indi tra frondi e frondi il color d'oro,
che diverso dal verde uscia raggiando,
di tremulo splendor l'aura percosse.
Come ne' boschi al brumal tempo suole
di vischio un cesto in altrui scorza nato
spiegar verdi le frondi e gialli i pomi,
e con le sue radici ai non suoi rami
abbarbicarsi intorno; cosí 'l bronco
era de l'oro avviticchiato a l'elce,
ond'era surto, e cosí lievi al vento
crepitando movea l'aurate foglie.
Tosto che 'l vide Enea, di piglio dielli,
e disïoso, ancor che duro e valido
gli sembrasse, a la fin lo svelse; e seco
a l'indovina vergine lo trasse.
[...]   

Prima di passare alla seconda parte del poema, quella più vicina, per gli argomenti trattati, all'Iliade, non si può fare a meno di soffermarsi su due episodi del racconto di Enea sulla caduta di Troia episodi non contemplati da Omero se non in modo molto vago e che poco si adattano alle argomentazioni virgiliane. Ma nello scrivere questo poema, il cui scopo principale è quello dell'esaltazione della nascita di Roma, il poeta mette da parte il suo aspetto pacifico e bucolico e riesce a illustrare con grande maestria anche racconti sanguinosi che invece si adattano maggiormente alla vena poetica omerica.

La morte di Laocoonte (dal 2°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...] 
Era Laocoonte a sorte eletto

sacerdote a Nettuno; e quel dí stesso
gli facea d'un gran toro ostia solenne:
quand'ecco che da Tènedo (m'agghiado
a raccontarlo) due serpenti immani
venir si veggon parimente al lito,
ondeggiando coi dorsi onde maggiori
de le marine allor tranquille e quete.
Dal mezzo in su fendean coi petti il mare,
e s'ergean con le teste orribilmente,
cinte di creste sanguinose ed irte.
Il resto con gran giri e con grand'archi
traean divincolando, e con le code
l'acque sferzando sí che lungo tratto
si facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti a la riva, con fieri occhi accesi
di vivo foco e d'atro sangue aspersi,
vibrâr le lingue, e gittâr fischi orribili.


Laocoonte lotta con i serpenti. - Scultura greca I sec. della scuola di Rodi.

Noi, di paura sbigottiti e smorti,
chi qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui
s'affilâr drittamente a Laocoonte,
e pria di due suoi pargoletti figli
le tenerelle membra ambo avvinchiando,
sen fêro crudo e miserabil pasto.
Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme
giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto
l'avvinser sí che le scagliose terga
con due spire nel petto e due nel collo
gli racchiusero il fiato; e le bocche alte,
entro al suo capo fieramente infisse,
gli addentarono il teschio. Egli, com'era
d'atro sangue, di bava e di veleno
le bende e 'l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar con le man tentava indarno,
e d'orribili strida il ciel feriva;
qual mugghia il toro allor che dagli altari
 sorge ferito, se del maglio appieno
non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
I fieri draghi alfin dai corpi esangui
disviluppati, in vèr la ròcca insieme
strisciando e zufolando, al sommo ascesero:
e nel tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti, a' piè di lei si raggrupparo.
Rinnovossi di ciò nel volgo orrore
e tremore e spavento; e mormorossi
che degnamente avea Laocoonte
di sua temerità pagato il fio,
e del furor che contra al sacro legno
gli armò l'impura e scelerata mano:
e gridâr tutti che di Palla al tempio
si conducesse, e con preghiere e vóti

de la dea si facesse il nume amico.
[...]

La morte di Priamo (dal 2°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...]
Era nel mezzo del palazzo a l'aura
scoperto un grand'altare, a cui vicino
sorgea di molti e di molt'anni un lauro
che co' rami a l'altar facea tribuna,
e con l'ombra a' Penati opaco velo.
Qui, come d'atra e torbida tempesta
spaventate colombe, a l'ara intorno
avea le care figlie Ecuba accolte;
ove agl'irati dèi pace ed aíta
chiedendo, agli lor santi simulacri
stavano con le braccia indarno appese.
Qui, poiché la dolente apparir vide
il vecchio re giovenilmente armato:
"O, - disse - infelicissimo consorte,
qual dira mente, o qual follia ti spinge
a vestir di quest'armi? Ove t'avventi,
misero? Tal soccorso a tal difesa
non è d'uopo a tal tempo: non, s'appresso
ti fosse anco Ettor mio. Con noi piú tosto
rimanti qui; ché questo santo altare
salverà tutti; o morren tutti insieme".
Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo seggio
in maestate il pose. Ecco davanti
a Pirro intanto il giovine Polite,
un de' figli del re, scampo cercando
dal suo furore, e già da lui ferito,
per portici e per logge armi e nemici
attraversando, in vèr l'altar sen fugge:
e Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza
sí che già già con l'asta e con la mano
or lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto,
fatto di mano in man di forza esausto
e di sangue e di vita, avanti agli occhi
d'ambi i parenti suoi cadde, e spirò.
Qui, perché si vedesse a morte esposto,
Prïamo non di sé punto oblïossi,
né la voce frenò, né frenò l'ira:
anzi esclamando: "O scelerato, - disse -
o temerario! Abbiati in odio il cielo,
se nel cielo è pietate; o se i celesti
han di ciò cura, di lassú ti caggia
la vendetta che merta opra sí ria.
Empio, ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto
mio proprio fai governo e scempio tale
d'un tal mio figlio, e di sí fera vista
le mie luci contamini e funesti.
Cotal meco non fu, benché nimico,
Achille, a cui tu menti esser figliolo,
quando, a lui ricorrendo, umanamente
m'accolse, e riverí le mie preghiere;
gradí la fede mia; d'Ettor mio figlio
mi rendé 'l corpo esangue: e me securo
nel mio regno ripose". In questa, acceso,
il debil vecchio alzò l'asta, e lanciolla
sí che senza colpir languida e stanca
ferí lo scudo, e lo percosse a pena,
che dal sonante acciaro incontinente
risospinta e sbattuta a terra cadde.
A cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque
messaggiero a mio padre, e da te stesso,
le mie colpe accusando e i miei difetti,
fa' conto a lui come da lui traligno:
e muori intanto". Ciò dicendo, irato
afferrollo, e, per mezzo il molto sangue
del suo figlio, tremante e barcolloni,
a l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo
con la sinistra il prese, e con la destra
strinse il lucido ferro, e fieramente
nel fianco infino agli elsi gliel'immerse.
Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse
Prïamo, un re sí grande, un sí superbo
dominator di genti e di paesi,
un de l'Asia monarca, a veder Troia
ruinata e combusta; a giacer quasi
nel lito un tronco desolato, un capo
senza il suo busto, e senza nome un corpo.
[...]



Jules Joseph Lefebvre - La morte di Priamo


Fermiamoci qui. Ancora potrei riportare molti altri brani degni di nota relativi alla prima parte del poema ma, forse, per non appesantire troppo il discorso, quelli che ho scelto possono essere sufficienti per motivare il consiglio di rileggere il poema. Certo leggerlo in latino sarebbe l’ideale ma ci si può accontentare e scegliere una buona traduzione, meglio se in versi.
Passiamo, quindi, a considerare la seconda parte dell’Eneide, quella che s’ispira all’Iliade, la parte forse più “latina” intendendo con ciò che fa maggior riferimento alla mitologia italica e a personaggi nuovi non compresi nei testi greci. Malgrado ciò, come sempre, chi muove le fila del discorso sono sempre le due dee rivali: Giunone e Venere. Quest’ultima deve aiutare assolutamente il proprio figlio nell’impresa – lo stesso padre degli dei le ha fatto solenne promessa - l’altra è contrariata ma sa che ogni suo tentativo di ostacolare la vittoria finale dell’eroe troiano sarà destinato a essere sconfitto. Una potenza alla quale neanche gli dei possono opporsi lo vuole. È il Fato, è deciso che saranno Enea e suo figlio Iulo a dar luogo a quella stirpe che fonderà Roma e alla famiglia, quella della gens Iulia, che sarà particolarmente gloriosa. Fin dal primo libro della seconda parte, Virgilio ci ricorda questo fatto sul quale spesso tornerà con un’insistenza, forse un po’ fastidiosa ma bisogna capire, il poema era scritto per osannare le gesta e la saggezza del proprio imperatore e mecenate, Ottaviano Augusto, appartenente anche se non proprio direttamente a quella famiglia.
Nel passaggio dagli inferi, dove Enea viene a conoscenza della propria missione, all’approdo sulle coste laziali, Virgilio non perde tempo, lo stacco è brusco, non c’è più interesse a inventare avventure di viaggio e quindi l’arrivo nella regione è immediato. In questa regna il re Latino il quale vede avverarsi, con l’arrivo del troiano, la profezia di un sogno in cui gli viene intimato di dare la figlia in sposa a un re straniero che sarebbe sbarcato in quei lidi piuttosto che al re Turno della città di Ardea con il quale già era esistente una promessa di matrimonio. Enea si presenta qui come una sorta di Paride che ruba la donna a un altro e invece Turno rappresenta, sempre volendo fare una specie di parallelismo con l’Iliade, l’eroe che difende la donna promessa e combatte l’ingerenza dello straniero ma che, malgrado il suo eroismo, sarà destinato a soccombere come l’Ettore omerico.
Le ostilità da parte di alcune popolazioni laziali, già nemiche di Turno, sono avviate per opera di Giunone: costei ottiene dal marito la promessa di ritardare il compimento di ciò che è stabilito da una potenza ancora superiore alla loro e di impegnare Enea in una guerra sanguinosa. Dal canto suo Venere farà in modo che l'ex marito, il dio Vulcano, forgi delle armi e uno scudo di protezione per il figlio. Ecco tornare l’Iliade: la fattura dello scudo di Enea su richiesta della madre ricalca pari pari quella dello scudo di Achille, anche questo ottenuto per intercessione di sua madre la deità del mare la nereide Teti. La descrizione dello scudo è altrettanto bella di quella omerica: in questo caso, in una successione di diverse fasce concentriche vengono narrati episodi leggendari della storia repubblicana di Roma fino ad Augusto, il primo princeps.
Dopo l’avvio delle ostilità troviamo una serie di episodi in cui si raccontano atti di eroismo di singoli nuovi combattenti, alterne vicende della guerra tra i troiani, coadiuvati da altre popolazioni latine che Enea ha condotto dalla propria parte e Turno, con i suoi alleati e dalle popolazioni istigate alla ribellione dalla furia Aletto inviata da Giunone per allungare l’ora dell’adempimento del Fato.
Leggiamo subito gli episodi che riguardano le due dee: questi son particolarmente importanti in quanto danno subito una svolta alle vicende.

Giunone (dal 7°libro. Traduzione Annibal Caro)

[...]
Ed ecco che di Grecia uscendo e d'Argo,
l'empia moglie di Giove, alto da terra
sospesa, infin dal sicolo Pachino
vide i legni troiani; e vide Enea
con tutti i suoi, che lieto e fuor del mare
e secur de la terra, incominciava
d'alzar gli alberghi, e di fondar le mura
già d'un altr'Ilio. E, punta il cor di doglia
squassando il capo: «Ah, - disse, - a me pur troppo
nimica razza! ah troppo a' fati miei
fati de' Frigi avversi! E forse estinti
fûr ne' campi sigèi? forse potuti
si son prender già presi, ed arder arsi?

Per mezzo de le schiere e de gl'incendi
han trovata la via. Stanca fia dunque
questa mia deità, quando ancor sazia
non è de l'odio? E già s'è resa, quando
ha fin qui nulla oprato? E che mi giova
che sian del regno, e de la patria in bando?
Che mi val ch'io mi sia con tutto il mare
a loro opposta? Ah! che del mar già tutte,
e del ciel contra lor le forze ho logre.
E che le Sirti, e che Scilla e Cariddi
a me con lor son valse? Ecco han del Tebro
la desïata foce; e non han téma
del mar piú, né di me. Marte poteo
disfar la gente de' Lapíti immane;
poté Dïana aver da Giove in preda
del suo disegno i Calidóni antichi,
quando de' Calidóni e de' Lapíti,
vèr le pene, era il fallo o nullo o leve:
ed io consorte del gran Giove e suora,
misera, incontro a lor che non ho mosso?
Che di me non ho fatto? E pur son vinta.
Enea, Enea mi vince. Ah se con lui
il mio nume non può, perché d'ognuno,
chïunque sia, non ogni aíta imploro?
Se mover contra lui non posso il cielo,
moverò l'Acheronte.
[...]
Ciò dicendo, in terra
discese irata, e da l'inferne grotte
a sé chiamò la nequitosa Aletto.
De le tre dire Furie una e costei,
cui son l'ire, i dannaggi, i tradimenti,
le guerre, le discordie, le ruine,
ogn'empio officio, ogni mal'opra a core.
E tale un mostro in tanti e cosí fieri
sembianti si trasmuta, e de' serpenti
sí tetra copia le germoglia intorno,
che Pluto e le tartaree sorelle
sue stesse in odio ed in fastidio l'hanno.
Giunon le parla, e via piú co' suoi detti
in tal guisa l'accende: «O de la Notte
possente figlia, io per mio proprio affetto,
per onor dei mio nume, per salvezza
de la mia fama un tuo servigio agogno.
Adoprati per me, che, mal mio grado,
questo troiano Enea del re Latino
genero non divenga, e nel suo regno
con gran mio pregiudicio non s'annidi.
Tu puoi, volendo, armar l'un contra l'altro
i concordi fratelli: odi e zizzanie
seminar tra' congiunti; e per le case
con mill'arti nocendo, in mille guise
infra' mortali indur morti e ruine.
Scuoti il fecondo petto, e le sue forze
tutt'a quest'opra accampa. Inferma, annulla
questa lor pace; infiamma i cori e l'armi,
arme ognun brami, ognun le gridi e prenda».
[...]

Venere e Vulcano  (dal libro 8°. Traduzione Annibal Caro)

[...]  
 Venne la notte, e le fosc'ali stese
avea di già sovra la terra, quando
Venere come madre, e non in vano
del suo figlio gelosa, il gran tumulto
veggendo e le minacce de' Laurenti,
con Volcan suo marito si ristrinse
con gran dolcezza; in tal guisa gli disse:
«Caro consorte, infinché i regi Argivi
furo a' danni di Troia, e che per fato
cader dovea, nullo da te soccorso
volsi, o da l'arte tua; né ti richiesi
d'armi allor, né di macchine, né d'altro
per iscampo de' miseri Troiani.
Le man, l'ingegno tuo, le tue fatiche
oprar non volli indarno, ancor che molto
con Prïamo e co' figli obbligo avessi,
e molto mi premesse il duro affanno
d'Enea mio figlio. Or per imperio espresso
e de' fati e di Giove egli nel Lazio
e tra' Rutuli è fermo. A te, mio sposo,
ricorro, a te, mio venerando nume;
e, madre, per un figlio arme ti chieggio;
quel che da te di Nèrëo la figlia,
e di Titon la moglie hanno impetrato.
Mira in quant'uopo io le ti chieggio, e quanti
e che popoli sono, a mia ruina
e de' miei, congregati; e qual fan d'armi
a porte chiuse orribile apparecchio».
E 'l buon marito, che d'eterno amore

avea il cor punto, le si volse, e disse:
«A che sí lungo esordio? Ov'è, consorte,
vèr me la tua fidanza? Io fin d'allora,
se t'era grado, avrei d'arme provvisti
i Teucri tuoi; né 'l padre onnipotente,
né i fati ci vietavano che Troia
non si tenesse, e Prïamo non fosse
restato ancor per diece altr'anni in vita.
Ed or s'a guerra t'apparecchi, e questo
è tuo consiglio, quel che l'arte puote
o di ferro o di liquido metallo,
quanto i mantici han fiato, e forza il foco,
io ti prometto. E tu con questi preghi
cessa di rivocar la possa in forse
del tuo volere, e 'l mio desir ch'è sempre
di far le voglie tue paghe e contente».
[...]

Lo scudo di Enea   (dal libro 8°. Traduzione Annibal Caro)

[...]
  Era Venere in ciel candida e bella
sovr'un etereo nembo apparsa intanto
con l'armi di Volcano; e visto il figlio
ch'oltre al gelido rio per erma valle
sen gia da gli altri solitario e scevro,
apertamente gli s'offerse, e disse:
«Eccoti 'l don che da me, figlio, attendi,
di man del mio consorte. Or francamente
gli orgogliosi Laurenti e 'l fiero Turno
sfida a battaglia, e gli combatti e vinci».
E, ciò detto, l'abbraccia. Indi gli addita
d'armi quasi un trofeo, ch'appo una quercia
dianzi da lei diposte, incontro agli occhi
facean barbaglio, e, contro al sol, piú soli.
D'un tanto dono Enea, d'un tale onore
lieto, e non sazio di vederlo, il mira,
l'ammira e 'l tratta. Or l'elmo in man si prende
e l'orribil cimier contempla e 'l foco
che d'ogni parte avventa: or vibra il brando
fatale; or ponsi la corazza avanti
di fino acciaio e di gravoso pondo,
che di sanguigna luce e di colori
diversamente accesi era splendente:
qual sembra di lontan cerulea nube,
arder col sole e varïar col moto.
Brandisce l'asta; gli stinier vagheggia
nitidi e lievi, che fregiati e fusi
son di fin oro e di forbito elettro.
Meravigliando alfin sopra lo scudo
si ferma, e l'incredibile artificio
ond'era intesto, e l'argomento esplora.
In questo di commesso e di rilievo
avea fatto de' fochi il gran maestro
(come de' vaticini e del futuro
presago anch'egli) con mirabil arte
le battaglie, i trionfi e i fatti egregi
d'Italia, de' Romani e de la stirpe
che poi scese da lui; dal figlio Ascanio
incominciando, i discendenti tutti
e le guerre che fêr di mano in mano.
V'avea del Tebro in su la verde riva
finta la marzïal nudrice lupa
in un antro accosciata, e i due gemelli
che da le poppe di sí fiera madre
lascivetti pendean, senza paura
seco scherzando. Ed ella umíle e blanda
stava col collo in giro, or l'uno or l'altro
con la lingua forbendo e con la coda.
V'era poco lontan Roma novella
con una pompa, e con un circo avanti
pien di tumulto, ov'era un'insolente
rapina di donzelle, un darsi a l'arme
infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi.
[...]

Cesare v'era alfin che trïonfando
tre volte in Roma entrava; e per trecento
gran templi a' nostri dii vóti immortali
si vedean consecrati. Eran le strade
piene tutte di plauso, di letizia,
e di feste e di giuochi. Ad ogni tempio
concorso di matrone; ad ogni altare
vittime, incensi e fiori. Egli di Febo
anzi al delúbro in maestade assiso
riconoscea de' popoli i tributi,
e la candida soglia e le superbe
sue porte ne fregiava. Iva la pompa
de le genti da lui domate intanto
varie di gonne, d'idïomi e d'armi.
Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera
in abito discinta; ivi un drappello
di Lèlegi, di Cari e di Geloni
con archi e strali. Infin dai liti estremi
i Mòrini condotti erano al giogo,
e gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio
giva l'Eufrate: ambe le corna fiacche
portava il Reno: disdegnoso il ponte
nel dorso si scotea l'Armenio Arasse.
A tal, da tanta madre avuto dono,
e d'un tanto maestro, Enea mirando,
benché il velame del futuro occulte
gli tenesse le cose, ardire e speme
prese e gioia a vederle; e de' nepoti
la gloria e i fati agli omeri s'impose.

[...]


Le armi splendide, lo scudo prezioso e solido possono bastare al nostro eroe a vincere le battaglie che lo attendono? Sicuramente no e quindi entra in azione la prima divinità prettamente romana che viene introdotta da Virgilio: il dio del sacro fiume, Tiberino. Questi si presenta in sogno a Enea, gli profetizza la fondazione di Roma e lo spinge a trovare degli alleati tra popolazioni non indigene che sono nemiche dei latini.
Bellissimo è il racconto del sogno e del discorso di Tiberino rivolto a Enea.

Il sogno di Enea ( dal libro 8°. Traduzione di Annibal Caro)

[…]
Era la notte, e già per ogni parte
del mondo ogni animal d'aria e di terra
altamente giacea nel sonno immerso,
allor che 'l padre Enea, cosí com'era
dal pensier de la guerra in ripa al Tebro
già stanco e travagliato, addormentossi.
Ed ecco Tiberino, il dio del loco
veder gli parve, un che già vecchio al volto
sembrava. Avea di pioppe ombra d'intorno
di sottil velo e trasparente in dosso
ceruleo ammanto, e i crini e 'l fronte avvolto
d'ombrosa canna. E de l'ameno fiume
B. Pinelli Il dio Tiberino appare in sogno ad Enea
placido uscendo a consolar lo prese
in cotal guisa: «Enea, stirpe divina,
che Troia da' nemici ne riporti
e la ravvivi e la conservi eterna;
o da me, da' Laurenti e da' Latini
già tanto tempo a tanta speme atteso,
questa è la casa tua, questo è securamente,
non t'arrestare, il fatal seggio
che t'è promesso. Le minacce e 'l grido
non temer de la guerra. Ogn'odio, ogn'ira
cessa già de' celesti. E perché 'l sonno
credenza non ti scemi, ecco a la riva
sei già del fiume, u' sotto a l'elce accolta
sta la candida troia con quei trenta
candidi figli a le sue poppe intorno.
Questo fia dunque il segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la tua sede. E questo è 'l fine
de' tuoi travagli: onde il tuo figlio Ascanio
dopo trent'anni il memorabil regno
fonderà d'Alba, che cosí nomata
fia dal candore e dal felice incontro
di questa fera. E tutto adempirassi
ch'io ti predíco, e t'è predetto avanti.
Or brevemente quel ch'oprar convienti,
per uscir glorïoso e vincitore
di questa guerra, ascolta. È di qui lunge
non molto Evandro, un re che de l'Arcadia
è qua venuto; e sopra a questi monti
ha degli Arcadi suoi locato il seggio.
Il loco, da Pallante suo bisavo,
è stato Pallantèo da lui nomato:
ed essi, perché son nel Lazio esterni,
son nemici a' Latini, ed han con loro
perpetua guerra. A te fa di mestiero
con lor confederarti, e per compagni
a questa impresa avergli. Io, fra le ripe
mie stesse, incontro a l'acqua a la magione
d'Evandro agevolmente condurrotti.
Dèstati, de la dea pregiato figlio;
e come pria vedrai cader le stelle,
porgi solennemente a la gran Giuno
preghiere e vóti; e supplicando vinci
de l'inimica dea l'ira e l'orgoglio;
ed a me, poi che vincitor sarai,
paga il dovuto onore. Io sono il Tebro
cerco da te, che, qual tu vedi, ondoso
rado queste mie rive, e fendo i campi
de la fertile Ausonia, al cielo amico
sovr'ogni fiume. Quel che qui m'è dato,
è 'l mio seggio maggiore: e fia che poscia
sovr'ogni altra cittade il capo estolla».
Cosí disse, e tuffossi.
[…]

Enea seguirà il consiglio del dio e troverà il popolo già venuto dall’Arcadia. Il popolo è in festa per una ricorrenza che su richiesta di Enea Evandro ci racconta: è una delle fatiche di Ercole, forse la decima, in cui si racconta come il semidio liberò la regione dai soprusi del mostro Caco. Vale la pena di leggere l’intero episodio.

Ercole e Caco. ( dal libro 8°. Traduzione di Annibal Caro)

[...]
Mira colà quella scoscesa rupe,
e que' rotti macigni, e di quel colle
quell'alpestra ruina, e quel deserto.
Ivi era già remota e dentro al monte
cavata una spelonca, ov'unqua il sole
non penetrava. Abitatore un ladro
n'era, Caco chiamato, un mostro orrendo
mezzo fera e mezz'uomo, e d'uman sangue
avido sí, che 'l suol n'avea mai sempre
tiepido. Ne grommavan le pareti,
ne pendevano i teschi intorno affissi,
di pallor, di squallor luridi e marci.
Volcano era suo padre; e de' suoi fochi
per la bocca spirando atri vapori,
gia d'un colosso, e d'una torre in guisa.
Contra sí diro mostro, dopo molti
dannaggi e molte morti, il tempo al fine
ne diede e questo dio soccorso e scampo.
Egli di Spagna vincitor ne venne
in queste parti, de le spoglie altero
di Gerïone, in cui tre volte estinse
in tre corpi una vita, e ne condusse
tal qui d'Ibèro un copïoso armento,
ch'avea pien questo fiume e questa valle.
Caco ladron feroce e furïoso,
d'ogni misfatto e d'ogni sceleranza
ardito e frodolente esecutore,
quattro tori involonne e quattro vacche,
ch'eran fior de l'armento. E perché l'orme
indicio non ne dessero, a rovescio
per la coda gli trasse; e ne la grotta
gli condusse e celogli. Eran l'impronte
de' lor piè volte al campo, e verso l'antro
segno non si vedea ch'a la spelonca
il cercator drizzasse. Avea già molti
giorni d'Anfitrïon tenuto il figlio
qui le sue mandre, e ben pasciuto e grasso
era il suo armento, sí che nel partire
tutte queste foreste e questi colli
di querimonia e di muggiti empiero.
Mugghiò da l'altro canto, e 'l vasto speco
da lunge rintonar fece una vacca
de le rinchiuse: onde schernita e vana
restò di Caco la custodia e 'l furto;
ch'udilla Alcide, e d'ira e di furore
in un súbito acceso, a la sua mazza,
ch'era di quercia nodorosa e grave,
diè di piglio, e correndo al monte ascese.
Quel dí da' nostri primamente Caco
temer fu visto. Si smarrí negli occhi,
si mise in fuga, e fu la fuga un volo:
tal gli aggiunse un timor le penne a' piedi.
Tosto che ne la grotta si rinchiuse,
allentò le catene, e di quel monte
una gran falda a la sua bocca oppose;
ch'a la bocca de l'antro un sasso immane
avea con ferri e con paterni ordigni
di cataratta accomodato in guisa
con puntelli per entro e stanghe e sbarre.
Ecco Tirinzio arriva, e come è spinto
da la sua furia, va per tutto in volta
fremendo, ora ai vestigi, ora ai muggiti,
ora a l'entrata de la grotta intento.
E portato da l'impeto, tre volte
scórse de l'Aventino ogni pendice:
tre volte al sasso de la soglia intorno
si mise indarno; e tre volte affannato
ritornò ne la valle a riposarsi.
Era de la spelonca al dorso in cima
di selce d'ogn'intorno dirupata
un cucuzzolo altissimo ed alpestro
ch'ai nidi d'avvoltoi e di tali altri
augelli di rapina e di carogna
era opportuno albergo. A questo intorno
alfin si mise; e siccom'era al fiume
da sinistra inchinato, egli a rincontro
lo spinse da la destra, lo divelse,
col calce de la mazza a leva il pose,
e gli diè volta. A quel fracasso il cielo
rintonò tutto, si crollâr le ripe,
e 'l fiume impaurito si ritrasse.
Allor di Caco fu lo speco aperto:
scoprissi la sua reggia, e le sue dentro
ombrose e formidabili caverne.
Come chi de la terra il globo aprisse
a viva forza, e de l'inferno il centro
discovrisse in un tempo, e che di sopra
de l'abisso vedesse quelle oscure
del cielo abbominate orride bolge;
vedesse Pluto a l'improvviso lume
restar del sole attonito e confuso:
cotal Caco da súbito splendore
ne la sua tomba abbarbagliato e chiuso
digrignar qual mastino Ercole vide;
e non piú tosto il vide, che di sopra
sassi, travi, tronconi, ogn'arme addosso
fulgurando avventogli. Ei che né fuga
avea né schermo al suo periglio altronde,
da le sue fauci (meraviglia a dirlo!)
vapori e nubi a vomitar si diede
di fumo, di caligine e di vampa,
tal che miste le tenebre col foco
togliean la vista agli occhi e 'l lume a l'antro.
Non però si contenne il forte Alcide,
che d'un salto in quel baratro gittossi
per lo spiraglio, e là 'v'era del fumo
la nebbia e l'ondeggiar piú denso, e 'l foco
piú roggio, a lui che 'l vaporava indarno,
s'addusse, e lo ghermí; gli fece un nodo
de le sue braccia, e sí la gola e 'l fianco
gli strinse che scoppiar gli fece il petto,
e schizzar gli occhi; e 'l foco e 'l fiato e l'alma
in un tempo gli estinse. Indi la bocca
aprí de l'antro, e la frodata preda,
e del suo frodatore il sozzo corpo
fuor per un piè ne trasse, a cui d'intorno
corser le genti a meraviglia ingorde
di veder gli occhi biechi, il volto atroce,
l'ispido petto e l'ammorzato foco.
Da indi in qua questo dí santo ogni anno
da' nostri è lietamente celebrato:
e ne sono i Potizi i primi autori,
e i Pinari ministri. Allor quest'ara,
che Massima si disse, e che mai sempre
massima ne sarà, fu consecrata
in questo bosco. Or via dunque, figliuoli,
per celebrar tant'onorata festa,
coi rami in fronte e con le tazze in mano
il comun dio chiamate, e lietamente
l'un con l'altro invitatevi, e beete».
[...]

Nell’Iliade Omero avvia la conclusione del poema con la morte di Patroclo. È lo stratagemma per motivare il ritorno di Achille alla pugna; dimentica l’affronto subito e pensa solo a vendicare l’uccisione del suo carissimo amico-amante. Ettore, il grande eroe, l’artefice della lunga resistenza di Troia, cade sotto i colpi vendicativi del Pelide e questo segna la fine della gloriosa città. Virgilio, che s’ispira al poema omerico, non può fare a meno di presentarci un episodio, giustamente famoso per la sua bellezza, in qualche modo simile. È quello di Eurialo e Niso, anche loro legati da intensa amicizia che sconfina nell’amore: i due effettuano una sortita notturna nel campo nemico ma dopo varie uccisioni, anche loro cadranno sotto i colpi nemici. Il primo è il giovane Eurialo che per la sua età non avrebbe dovuto partecipare a un atto così pericoloso; Niso, preso da profondo dolore, si slancia senza alcuna prudenza contro i latini con furia omicida e, colpito a morte, cade abbracciando il corpo del suo amico.

Eurialo e Niso (dal 9° libro. Traduzione di Annibal Caro)

[...]
Già su le mura, ovunque o da periglio
o da la vece eran disposti, ognuno
tenea il suo luogo. Un de' piú fieri in arme
Niso, d'Irtaco il figlio, ad una porta
era preposto. Da le cacce d'Ida
venne costui mandato al troian duce,
gran feritor di dardo e di saette.
Eurïalo era seco, un giovinetto
il piú bello, il piú gaio e 'l piú leggiadro
che nel campo troiano arme vestisse;
ch'a pena avea la rugiadosa guancia
del primo fior di gioventute aspersa.
Era tra questi due solo un amore
ed un volere; e nel mestier de l'armi
l'un sempre era con l'altro, ed ambi insieme
stavano allor vegghiando a la difesa
di quella porta. Disse Niso in prima:
«Eurïalo, io non so se dio mi sforza
a seguir quel ch'io penso, o se 'l pensiero
stesso di noi fassi a noi forza e dio.
Un desiderio ardente il cor m'invoglia
d'uscire a campo, e far contr'a' nemici
un qualche degno e memorabil fatto:
sí di star pigro e neghittoso aborro.
[...]
Escono alfine. E già varcato il fosso,
da le notturne tenebre coverti,
si metton per la via che gli conduce
al campo de' nemici, anzi a la morte.
[...]
Era la selva un'ampia
macchia d'elci e di pruni orrida e folta,
ch'avea rari i sentieri, occulti e stretti.
E gl'intrichi de' rami e de la preda
ch'era pur grave, e 'l dubbio de la strada
tenean sovente Eurïalo impedito.
Niso disciolto e lieve, e del compagno
non s'accorgendo ch'era indietro assai,
oltre si spinse. E già fuor de' nemici
era ne' campi che dal nome d'Alba
si son poi detti Albani. Allor le razze
e le stalle v'avea de' suoi cavalli
il re Latino. E qui poscia ch'un poco
ebbe il suo caro amico indarno atteso,
gridando: «Ah! - disse - Eurïalo infelice,
u' sei rimaso? U' piú (lasso!) ti trovo
per questo labirinto?» E tosto indietro
rivolto, per le vie, per l'orme stesse
di tornar ricercando, si rimbosca.
Erra pria lungamente, e nulla sente;
poscia sente di trombe e di cavalli
e di voci un tumulto; e vede appresso
Eurïalo fra mezzo a quelle genti,
qual cacciato leone. E già dal loco
e da la notte oppresso si travaglia,
e si difende il poverello invano.
Che farà? Con che forze, e con qual armi
fia che lo scampi? Avventerassi in mezzo
de' nimici a morir morte onorata?
Cosí risolve, e prestamente un dardo
s'adatta in mano; e vòlto in vèr la luna,
ch'allora alto splendea, cosí la prega:
«Tu, dea, tu de la notte eterno lume,
tu, regina de' boschi, in tanto rischio
ne porgi aíta. E s'Irtaco mio padre
per me de le sue cacce, io de le mie
il dritto unqua t'offrimmo; e se t'appesi,
e se t'affissi mai teschio né spoglia
di fera belva, or mi concedi ch'io
questa gente scompigli, e la mia mano
reggi e i miei colpi». E ciò dicendo, il dardo
vibrò di tutta forza. Egli volando
fendé la notte, e giunse ove a rincontro
era Sulmone, e l'investí nel tergo
là 've pendea la targa; e 'l ferro e l'asta
passogli al petto, e gli trafisse il core.
Cadde freddo il meschino; e, con un caldo
fiume di sangue, che gli uscio davanti,
finí la vita, e con singhiozzo il fiato.
Guardansi l'uno a l'altro; e tutti insieme
miran d'intorno di stupor confusi
e di timor d'insidie. E Niso intanto
via piú si studia; ed ecco un altro fiero
colpo, ch'avea di già librato, e dritto
di sopra gli si spicca da l'orecchio,
e per l'aura ronzando in una tempia
si conficca di Tago, e passa a l'altra.
Volscente, acceso d'ira, non veggendo
con chi sfogarla, al giovine rivolto:
«Tu me ne pagherai per ambi il fio» -
disse, e strinse la spada, e vèr lui corse.
Niso a tal vista spaventato, e fuori
uscito de l'agguato e di se stesso
(che soffrir non poteo tanto dolore):
«Me, me, - gridò - me, Rutuli, uccidete.
io son che 'l feci, io son che questa froda
ho prima ordito. In me l'armi volgete;
ché nulla ha contro a voi questo meschino
osato, né potuto. Io lo vi giuro
per lo ciel che n'è conscio e per le stelle,
questo tanto di mal solo ha commesso,
che troppo amato ha l'infelice amico».
J. B. Roman, Eurialo e Niso, 1827, Louvre
Mentre cosí dicea, Volscente il colpo
già con gran forza spinto, il bianco petto
del giovine trafisse. E già morendo
Eurïalo cadea, di sangue asperso
le belle membra, e rovesciato il collo,
qual reciso dal vomero languisce
purpureo fiore, o di rugiada pregno
papavero ch'a terra il capo inchina.
In mezzo de lo stuol Niso si scaglia
solo a Volscente, solo contra lui
pon la sua mira. I cavalier che intorno
stavano a sua difesa, or quinci or quindi
lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre
addosso a lui la sua fulminea spada
rotava a cerco. E si fe' largo in tanto
ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,
cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.
Cosí non morse, che si vide avanti
morto il nimico. Indi da cento lance
trafitto addosso a lui, per cui moriva,
gittossi; e sopra lui contento giacque.
Fortunati ambidue! Se i versi miei
tanto han di forza, né per morte mai,
né per tempo sarà che 'l valor vostro
glorïoso non sia, finché la stirpe
d'Enea possederà del Campidoglio
l'immobil sasso, e finché impero e lingua
avrà l'invitta e fortunata Roma
[...]

Era vermiglio e rancio
fatto già de la notte il nero ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto;
e comparso era il sole, e discoverto
già 'l mondo tutto, allor che Turno armato
a l'arme, a l'ordinanza, a la battaglia
concitò 'l campo; e diede ordine e loco
ciascuno a' suoi. Vendetta, ira e disio
d'assalir, di combatter, di far sangue
vedeansi in tutti. A due grand'aste in cima
conficcaron le teste (orribil mostra!)
d'Eurïalo e di Niso, e con le grida
ne fêro onta e spettacolo a' nemici.
I Teucri arditamente in su le mura
da la sinistra incontra si mostraro;
ché la destra dal fiume era difesa.
E chi da le trincee, chi da le torri
stavan dolenti rimirando i teschi
ne l'aste affissi, polverosi e lordi,
ch'ancor sangue gocciando eran pur troppo
cosí lunge da' miseri compagni
raffigurati a le fattezze conte.
Spiegò la Fama le sue penne intanto,
e la trista novella in ogni parte
sparse per la città, sí ch'agli orecchi
de la madre d'Eurïalo pervenne.
Corse subitamente un gel per l'ossa
a la meschina; e da le man le usciro
le sue tele e i suoi fili. Indi, rapita
dal duolo e da la furia, forsennata
e scapigliata ne la strada uscio;
e per mezzo de l'armi e de le genti
correndo, e mugolando, senza téma
di periglio e di biasmo, andò gridando,
e di questi lamenti il cielo empiendo:
«Ahi, cosí concio, Eurïalo, mi torni?
Eurïalo, sei tu? Tu sei 'l mio figlio,
ch'eri la mia speranza e 'l mio riposo
ne l'estreme giornate di mia vita?
Ahi! come cosí sola mi lasciasti,
crudele? E come a cosí gran periglio
n'andasti, anzi a la morte, che tua madre
non ti parlasse, ohimè! l'ultima volta,
né che pur ti vedesse? Ah! ch'or ti veggio
in peregrina terra esca di cani,
d'avoltoi e di corvi. Ed io tua madre,
io cui l'esequie eran dovute e 'l duolo
d'un cotal figlio, non t'ho chiusi gli occhi,
né lavate le piaghe, né coperte
con quella veste che con tanto studio
t'ho per trastullo de la mia vecchiezza
tessuta io stessa e ricamata invano.
Figlio, dove ti cerco? ove ti trovo
sí diviso da te? come raccozzo
le tue cosí sbranate e sparse membra?
Sol questa parte del tuo corpo rendi
a la tua madre, che per esser teco
t'ha per terra e per mar tanto seguito,
e seguiratti dopo morte ancora?
In me, Rutuli, in me tutti volgete
i vostri ferri, se pur regna in voi
pietade alcuna. A me la morte date
pria ch'a null'altro. O tu, padre celeste,
miserere di me. Tu col tuo tèlo
mi trabocca nel Tartaro e m'ancidi,
poiché romper non posso in altra guisa
questa crudele e disperata vita».
[...]


Gli ultimi tre libri del poema sono dedicati alle sorti alterne della guerra tra i troiani e le popolazioni italiche: detto così può sembrare che sia sì un racconto avvincente ma poco significativo. Però non è così. Virgilio, narrando di battaglie e duelli, al contempo arricchisce le personalità dei suoi eroi esponendo così il suo modo di pensare che è profondamente romano. Vediamo degli esempi.
La guerra è al suo culmine, i troiani sono sotto assedio e solo il sopraggiungere di Enea, con gli alleati di varie regioni dell’Etruria, scongiura la loro completa disfatta. Insieme all’eroe combatte per la prima volta Pallante, figlio di Evandro. È ancora molto giovane ma è comunque già un forte e coraggioso guerriero: fa strage di molti nemici fin quando, però s’imbatte in qualcuno più forte e valoroso di lui, Turno. Per lui costui è un guerriero troppo esperto ma l’entusiasmo giovanile lo rende impavido, non fugge e lo incontra a viso aperto, affidandosi al nume tutelare del suo popolo, Ercole. Il semidio sa che contro Turno le speranze di Pallante sono vane, guarda il padre Giove con la speranza che il sommo dio intervenga e gli salvi la vita. La risposta è lapidaria, ci mostra tutta la rassegnazione degli antichi di fronte alla morte: la trovo così bella nella sua forma concisa e sicura che non posso fare a meno di citarla così come Virgilio la scrisse.
“Stat sua cuisque dies, breve et irreparabile tempus
Omnibus est  vitae: sed famam extendere factis,
Hoc virtutis opus”
Ognuno ha il suo giorno, il tempo della vita è breve e irreparabile per tutti, ma estendere la fama con le imprese, questa è l’opera del valore.
Mi sembra opportuno fare un parallelo con Omero: anche Achille allunga la propria vita con atti di valore durante i giorni della sua esistenza terrena.
Degno di nota per capire meglio il nostro eroe Enea è l’episodio di Lauso: è figlio di Mezenzio, crudele re di Caere in esilio e rifugiato presso i Rutuli, per sfuggire alla morte certa dovuta al suo stesso popolo. Lauso subentra al padre vigliacco che ferito da Enea fugge sulle rive del fiume per curarsi. Lo scontro tra Lauso ed Enea è impari e il giovane è subito ucciso. È un duello come tanti ma è interessante fermare la nostra attenzione sulla reazione dell’eroe di fronte all’avversario morente.

Enea uccide Lauso ( dal libro 10°. Traduzione di Annibal Caro)

[...]
Ei (Lauso)non per questo,
folle, meno insultava; onde piú crebbe
l'ira del teucro duce. E già la Parca,
vòta la rócca e non pien anco il fuso,
il suo nitido filo avea reciso.
Trasse Enea de la spada, e ne lo scudo,
che liev'era e non pari a tanta forza,
lo colpí, lo passò, passogli insieme
la veste che di seta e d'òr contesta
gli avea la stessa madre; e lui per mezzo
trafisse, e moribondo a terra il trasse.
Ma poscia che di sangue e di pallore
lo vide asperso e della morte in preda,
ne gl'increbbe e ne pianse; e di paterna
pietà quasi un'imago avanti agli occhi
veder gli parve, e 'ntenerito il core,
stese la destra e sollevollo e disse:
«Miserabil fanciullo! e quale aíta,
quale il pietoso Enea può farti onore
degno de le tue lodi e del presagio
che n'hai dato di te? L'armi, che tanto
ti son piaciute, a te lascio, e 'l tuo corpo
a la cura de' tuoi, se di ciò cura
ha pur l'empio tuo padre, acciò di tomba
e d'esequie t'onori. E tu, meschino,
poi che dal grand'Enea morte ricevi,
di morir ti consola». Indi assecura,
sollecita, riprende, e de l'indugio
garrisce i suoi compagni; e di sua mano
l'alza, il sostiene, il terge e de la gora
del suo sangue lo tragge, ove rovescio
giace languido il volto e lordo il crine,
che di rose eran prima e d'ostro e d'oro.
[...]

Enea è spesso indicato come il pio ma ho già specificato che questo termine va inteso con il senso relativo al termine pietas latino: in questo caso, però, il personaggio anticipa una pietà di tipo cristiano. Obbligatorio di nuovo è il confronto con l’Iliade omerica: Achille ha ucciso Ettore e nella sua ira, non contento di ciò che già ha fatto, medita di lasciare il corpo del nemico senza alcun onore funebre preda degli avvoltoi. Ci vuole l’intervento del vecchio padre di Ettore, il grande re Priamo, che si umilia in ginocchio al cospetto di Achille chiedendo che gli sia restituito il cadavere dell’amato figlio. Achille non è come Enea, non prova pietà e alla fine acconsente alla richiesta solo per il solito intervento dei numi. Qui, invece, come vogliamo chiamare il gesto di Enea che raccoglie le spoglie del nemico affinché possa essere riconsegnato ai suoi? E' sicuramente un atto di pietà cristiana. 
Mi sarebbe piaciuto accompagnare i versi citati da una rappresentazione fotografica: purtroppo non ho trovato alcuna immagine ma può venirci in aiuto la fantasia. Immaginate il campo di battaglia disseminato di cadaveri che vengono spogliati delle armi dai propri vincitori e in mezzo a questo sterminio il comandante supremo che invece alza dal terreno il cadavere del giovane dai capelli insanguinati con fare paterno, come se fosse un figlio. Di certo questi sono atteggiamenti del tutto assenti in Omero, dove il comportamento degli umani è sicuramente più arcaico. Forse l'unica concessione è quella relativa a Ettore nel momento del saluto ad Andromaca e, in particolare, al figlioletto Astianatte il quale prova anche paura nel vedere il cimiero paterno. Virgilio, però, è già di un'altra epoca; pur ispirandosi al maestro Omero e non omettendo episodi di forte brutalità inserisce di tanto in tanto momenti di grande sensibilità. La nobiltà d'animo di Enea si manifesta ancora nell'episodio che segue, quello in cui con dolore e senso di colpa prepara il feretro di Pallante per consegnarlo al padre Evandro.
L'amore per i congiunti fuoriesce con forza dal poema con continui riferimenti. Non per niente l'immagine classica di Enea non è quella di un combattente vincitore ma di colui che, non certo per paura, fugge da Troia in fiamme con il padre Anchise sulle spalle e il figlioletto Iulo per mano: per lui il fato ha stabilito diversamente.


(Impossibile non riportare quest'immagine parlando dell'Eneide!!)
Gli onori funebri per Pallante (dal libro 11°. Traduzione di Annibal Caro)

[...]
"Ciò detto, lagrimando il passo volse
vèr la magione, u' di Pallante il corpo
dal vecchierello Acete era guardato.
Era costui già del parrasio Evandro
donzello d'armi; e poscia per compagno
fu (ma non già con sí lieta fortuna)
dato al suo caro alunno. Avea con lui
d'Arcadi suoi vassalli e di Troiani
una gran turba. Scapigliate e meste
le donne d'Ilio, sí com'era usanza,
gli piangevano intorno; e non fu prima
Enea comparso che le strida e i pianti
si rinnovaro. Il batter de le mani,
il suon de' petti, e de l'albergo i mugghi
n'andâr fino a le stelle. Ei poi che vide
il suo corpo disteso, e 'l bianco volto,
e l'aperta ferita che nel petto
di man di Turno avea larga e profonda,
lagrimando proruppe: «O miserando
fanciullo, e che mi val s'amica e destra
mi si mostra fortuna? E che m'ha dato,
se te m'ha tolto? Or che, vincendo, ho fatto?
Che, regnando, farò, se tu non godi
de la vittoria mia, né del mio regno?
Ah! non fec'io queste promesse allora
al buon Evandro, ch'a l'acquisto venni
di questo impero. E ben temette il saggio,
e ben ne ricordò che duro intoppo,
e d'aspra gente, avremmo. E forse ancora
il meschino or fa vóti e preci e doni
per la nostra salute, e vanamente
vittoria s'impromette. E noi con vana
pompa gli riportiam questo infelice
giovine di già morto, e di già nulla
piú tenuto a' celesti. Ahi, sconsolato
padre! vedrai tu dunque una sí cruda
morte del figlio tuo? Questo ritorno,
questo trionfo ohimè! d'ambi aspettavi?
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no 'l vedrai già di vergognose piaghe
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(se con infamia a te vivo tornasse)
a desïar la morte. Ahi, quanto manca
al sussidio d'Italia, e quanto perdi,
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,
ordine diè che 'l miserabil corpo
via si togliesse; e del suo campo tutto
scelse di mille una pregiata schiera
che scorta gli facesse e pompa intorno,
e d'Evandro a le lagrime assistesse,
e le sue gli mostrasse, a tanto lutto
assai debil conforto, e pur dovuto
al suo misero padre."

E ora Virgilio ci descrive minuziosamente la preparazione del feretro:gli addobbi vengono posti con cura e amore, quasi con mano femminea. 

"Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
d'àrbuto e di tali altri agresti rami
fatto un ferètro di virgulti intesto
e di frondi coperto, ove altamente
del giovinetto il delicato busto
composto si giacea qual di vïola,
o di giacinto un languidetto fiore
còlto per man di vergine, e serbato
tra le sue stesse foglie, allor che scemo
non è del tutto il suo natio colore
né la sua forma; e pur da la sua madre
punto di cibo o di vigor non ave.
Enea due prezïose vesti intanto,
l'una d'òr fino e l'altra di scarlatto,
addur si fece, ambe ornamenti e doni
de la sidonia Dido, e da lei stessa
con dolce studio e con mirabil arte
ricamate e distinte. E l'una indosso
gli pose, e l'altra in capo, ultimo onore
con che dolente la dorata chioma
allor velogli, ch'era additta al foco.
De le prede oltre a ciò di Laürento
gli fa gran parte. Fagli in ordinanza
spiegar l'armi, i cavalli e l'altre spoglie
tolte a' nimici. Gli fa gir legati
con le man dietro i destinati a morte
per ordinanza del funereo rogo.
Portar gli fa davanti a' duci loro
l'armi ai tronchi sospese, e i nomi scritti
degli occisi e de' vinti." 
[...]

La figura di questo giovine prematuramente morto in battaglia è fondamentale per il finale del poema e la sorte di Turno; Virgilio, quindi, si dilunga a raccontare non solo l'orazione di Enea ma anche quella straziante di Evandro.

[...]
E già la Fama,
che di Pallante a Pallantèo volata
dicea pria le sue prove, e vincitore
l'avea gridato, or d'ogni parte grida
che morto si riporta. In ciò commossa
la città tutta in vedovile aspetto
di funeste facelle e d'atri panni
si vide piena; e vèr le porte ognuno
gli usciro incontro. Si vedea di lumi
e di genti una fila che le strade
e i campi in lunga pompa attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo ne venian da l'altra parte,
e con pianto incontrârsi. Indi rivolti
tutti vèr la città, non pria fûr giunti,
che di pianti di donne e d'ululati
risonar d'ogn'intorno il cielo udissi.
Né forza, né consiglio, né decoro
fu ch'Evandro tenesse. Uscí nel mezzo
di tutta gente; e la funerea bara
fermando, addosso al figlio in abbandono
si gittò, l'abbracciò, stretto lo tenne
lunga fïata, e da l'angoscia oppresso
pria lagrimando, e sospirando, tacque.
Poscia, la strada al gran dolore aperta,
cosí proruppe: «O mio Pallante, e queste
fûr le promesse tue, quando partendo
il tuo padre lasciasti? In questa guisa
d'esser guardingo e cauto mi dicesti
ne' perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
ben sapev'io quanto ne l'armi prime
fosse, in cor generoso, ardente e dolce
il desio de la gloria e de l'onore.
Primizie infauste, infausti fondamenti
de la tua gioventú! vane preghiere,
vóti miei non accetti e non intesi
da nïun dio! Santissima consorte,
che morendo fuggisti un dolor tale,
quanto sei tu di tua morte felice!
Quanto infelice e misero son io,
che vecchio e padre al mio diletto figlio
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
prolungo a mio tormento! Ah! foss'io stesso
uscito co' Troiani a questa guerra!
ch'io sarei morto! e questa pompa avrebbe
me cosí riportato, e non Pallante.
Né per questo di voi, né de la lega,
né de l'ospizio vostro io mi rammarco,
Troiani amici. Era a la mia vecchiezza
questa sorte dovuta. E se dovea
cader mio figlio, perché tanta strage
io vedessi de' Volsci, e perché Lazio
fosse a' Teucri soggetto, in pace io soffro
che sia caduto. E piú compíto onore
non aresti da me, Pallante mio,
di questo che 'l pietoso e magno Enea
e i suoi magni Troiani e i toschi duci
e tutte insieme le toscane genti
t'han procurato. Con sí gran trofei
del tuo valor sí chiara mostra han fatto,
e de' vinti da te. Né fôra meno
tra questi il tuo gran tronco, s'a te fosse,
Turno, stato d'età pari il mio figlio,
e par de la persona e de le forze
che ne dan gli anni. Ma che piú trattengo
quest'armi a' Teucri? Andate, e da mia parte
riferite ad Enea che, quel ch'io vivo
dopo Pallante, è sol perché l'invitta
sua destra, come vede, al figlio mio
ed a me deve Turno. E questo solo
gli manca per colmar la sua fortuna
e 'l suo gran merto; ché per mio contento
no 'l curo; e contentezza altra non deggio
sperare io piú che di portare io stesso
questa novella di Pallante a l'ombra».
[...]

Non si può raccontare l'Eneide senza presentare la figura, relativa alla tradizione italica, della vergine Camilla. Nei poemi non sono tante le figure femminili presenti e questa si riallaccia alle Amazzoni e a Pentesilea con la quale condivide il destino. Camilla è stata salvata miracolosamente dal padre Metabo che la lancia oltre un fiume e cresce nei boschi, novella Diana alla quale è stata consacrata, crescendo forte, ardita e valorosa. Accorre in aiuto di Turno e costui, conoscendone il valore, accetta di buon grado: Camilla combatterà ma lascia per se stesso il compito di misurarsi con i  il grande comandante dei Teucri. Il valore della guerriera è subito manifesto: porta scompiglio e distruzione nelle file dei nemici. 
Leggiamo qualche verso che descrive il suo valore.

Camilla (dal libro 11°. Traduzione di Annibal Caro)

[...]

In mezzo a tanta occisïone, ignuda
da l'un de' lati infurïando esulta
la vergine Camilla; ed or di dardo
fulminando, or di lancia, or di secure
non mai stanca percuote. E qual Dïana
di sonora faretra e d'arco aurato
gli omeri onusta, ancor che si ritragga,
saettando, ferite e morti avventa.
D'intorno ha per compagne e per guerriere
d'archi, di mazze e di bipenni armate,
Tulla, Tarpèa, Larina ed altre illustri
italiche donzelle, a suo decoro
scelte da lei per sue degne ministre
ne la pace e ne l'armi. In tal sembianza
Termodoonte il bellicoso stuolo
de l'Amazzoni sue vide in battaglia
attorneggiare Ippolita, o col carro
gir di Pentesilèa le schiere aprendo
con feminei ululati. Or chi fu prima,
chi poi, cruda virago, e quali e quanti
quei ch'abbattesti, e che di vita spenti
mandasti a l'Orco? Eumenio primamente
di Clizio il figlio, da costei trafitto
fu d'un colpo di lancia in mezzo al petto.
Cadde il meschino, e fe' di sangue un rivo,
sopra cui voltolandosi, e mordendo
il sanguigno terren, di vita uscio.
Indi va sopra a Liri e sopra a Pègaso
quasi in un tempo, a l'un mentre, inciampando
il suo destriero, il fren raccoglie; a l'altro
mentre a lui, che trabocca, il braccio stende
per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi
precipitaro. A cui d'Ippòta il figlio
Amastro aggiunse, e via seguendo, Arpàlico
e Tèreo e Cromi e Demofonte occise.
Quanti dardi lanciò, tanti Troiani

gittò per terra. 
[...]

D'Àüno montanar de l'Appennino
il bellicoso figlio a l'improvviso
fu da lei còlto: un Ligure scaltrito,
che per ordire inganni (in fin che 'l fato
gliel concedé) non degli estremi avuto
era tra' suoi. Costui nel primo incontro
sbigottito fermossi. E poiché vide
non poter con la fuga a lei sottrarsi,
che gli era sopra, a la malizia usata
ricorrendo: «Oh! gran prova, - a dir comincia -
sarà la tua, se ben femina sei,
di sfidar me, quando a un caval t'affidi
sí fugace e sí forte. Or al vantaggio
rinunzia de la fuga e meco a piede
prendi zuffa del pari; e poi vedrassi
a cui questa ventosa tua bravura
onore acquisti». A cotal dir Camilla
di furia, di dolor, di sdegno ardendo
ratto dismonta; e 'l corridor deposto
in man de la compagna, a piè si pianta;
stringe la spada, imbracciasi lo scudo,
e con pari armi intrepida l'attende.
Il giovine, che vinto si credette
aver con quello avviso, incontinente
la groppa le mostrò del suo cavallo,
e via spronando a tutta briglia il pinse.
«Ligure vano, vano orgoglio in prima
ti mosse: or vana astuzia e vana fuga
sarà la tua; ché l'arte del fallace
tuo padre, e di tua patria, a far non basta
che vivo da le man mi ti ritolga».
Disse la virgo, e qual da cocca strale
dietro gli si spiccò: ratto l'aggiunse,
passollo, attraversollo, al fren di piglio
diedegli; lo ferí, l'ancise alfine.
Cosí d'un alto sasso agevolmente
sparvier grifagno al timido colombo
s'avventa, e lo ghermisce; onde in un tempo
sangue e piuma dal ciel neviga e piove.
[...]


Come si vede Camilla è guerriera invincibile ma gli dei, se invocati, si schierano dalla parte di chi li lusinga: in questo caso Apollo ascolta l' etrusco Arunte che la segue non visto e fa in modo che la vergine venga colpita dal dardo lanciato di nascosto. Ma anche lui non tornerà vivo. Gli dei ascoltano solo ciò che vogliono.

[...]
Tra questi Arunte, un che di già dovuto
era al suo fato, con un dardo in mano
Camilla astutamente insidïando,
si diede a seguitarla, a circuïrla,
a cercar destra e comoda fortuna
di darle morte. Ovunque ella o per mezzo
fendea le schiere, o vincitrice indietro
si ritraea, l'era vicino Arunte;
e tutti i moti suoi, tutte le vie
osservando, attendea che netto il colpo
gli rïuscisse; e da fellone intanto
avea l'asta a ferir librata e pronta.

[...]

«O di Soratte
sommo custode, Apollo, a cui devoti
noi fummo in prima, a cui di sacri pini
nutriamo il foco, e per cui nudi e scalzi
tra le fiamme saltando e per le brage
securamente e senza offesa andiamo,
dammi, ché tutto puoi, padre benigno,
che questa infamia per mia man si tolga
da l'armi nostre. Io di costei non bramo
armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti
mi sian di lode, e pur che questo mostro
caggia spento da me, ne la mia patria
senza piú gloria andrò di questa guerra
pago e contento». Udí Febo del vóto
parte, e parte per l'aura ne disperse.
Udí che morta da quel colpo fosse
la vergine Camilla; e non udio
di lui, ch'ei vivo in patria ne tornasse;
ché ciò per l'aura ne portaro i vènti.
Tosto che da le man l'asta ronzando
gli uscio, fûr gli occhi e gli animi e le grida
de' Volsci tutti a la regina intenti.
Ed ella né del tèlo, né de l'aura
moto o fischio sentí; né vide il colpo,
mentre giú discendea, finché non giunse.
Giunsele a punto ove divelta e nuda
era la poppa; e del virgineo sangue,
non già di latte, sitibonda scese
sí che 'l petto l'aprí. Le sue compagne
le fûr trepide intorno; e già che morta
cadea, la sostentaro. Arunte in fuga
ratto si volge, di paura insieme
turbato e di letizia; ché ne l'asta
piú non confida, e piú di star non osa
incontro a lei. Qual affamato lupo
ch'ucciso de l'armento un gran giovenco,
o lo stesso pastore, in sé confuso
di tanta audacia, anzi che da' villaggi
gli si levin le grida, infra le gambe
si rimette la coda, e ratto a' monti
fuggendo, si rinselva; in cotal guisa
Arunte, dopo 'l tratto, impaürito,
solo a salvarsi inteso, in mezzo a l'armi
si mischiò tra le schiere. Ella, morendo,
di sua man fuor del petto il crudo ferro
Franz von Stuck-Wounded Amazon 1903
tentò svelgersi indarno; ché la punta
s'era altamente ne le coste infissa:
onde languendo abbandonossi, e fredda
giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi
scintillavano ardor, grazia e fierezza,
si fêr torbidi e gravi. Il volto, in prima
di rose e d'ostro, di pallor di morte
tutto si tinse. In tal guisa spirando,
Acca a sé chiama, una tra l'altre sue
la piú fida di tutte e la piú cara;
e dice: «Acca, sorella, i giorni miei
son qui finiti: questa acerba piaga
m'adduce a morte, e già nero mi sembra
tutto che veggio. Or vola, e da mia parte
di' per ultimo a Turno che succeda
a questa pugna e la città soccorra;
e tu rimanti in pace». A pena detto
ebbe cosí, che abbandonando il freno
e l'arme e sé medesma, a capo chino
traboccò da cavallo. Allora il freddo
l'occupò de la morte a poco a poco
le membra tutte. E, dechinato il collo
sopra un verde cespuglio, alfin di vita
sdegnosamente sospirando uscio.
[...]
Opi, ministra intanto
di Trivia, che nel monte era discesa
vicino a la battaglia, indi il conflitto
stava mirando intrepida e sicura,
e visto di lontan tra molte genti
nascer nuovo tumulto e nuove grida,
poscia in mezzo di lor caduta e morta
la vergine Camilla: «Ah, - sospirando
disse, - virgo infelice! troppo, troppo
crudel supplizio hai de l'ardir sofferto,
se d'irritar l'armi troiane osasti.
E di che pro t'è stato a viver nosco
solinga vita, armar de l'armi nostre,
gradire i boschi e venerar Dïana?
Ma te non lascerà la tua regina
giacer disonorata in questa fine
de la tua vita; e la tua morte oscura
non sarà tra le genti; e non dirassi
che non è chi di te vendetta faccia;
ché chïunque di ferro avrà ferito
il corpo tuo, sarà meritatamente
di ferro anciso».
[...]
Arunte avrà vita breve: Opi manterrà subito la promessa e con un dardo lo ucciderà come lui ha fatto con Camilla.


La morte della vergine Camilla preannuncia il finale del poema. Nell’ultimo libro vediamo l’inasprirsi della battaglia, la morte di tanti valorosi guerrieri, l’alternarsi delle sorti dei due schieramenti, l’intervento degli dei (Venere per curare il figlio ferito, Giunone per inviare la ninfa Giuturna in difesa del fratello Turno), la sconfitta finale dell’eroe italico. Questa avverrà solo dopo il consenso di Giunone che si convincerà solo perché strappa una formale promessa al sommo Giove: Non si creerà una seconda Troia, le popolazioni indigene assorbiranno i troiani mantenendo tutte le loro caratteristiche e i propri nomi, la città che dovrà nascere, gloriosa più di ogni altra, la onorerà sempre come dea suprema. Le fondamenta per un’origine divina della stirpe romana sono ormai tracciate con precisione e anche in quest’ultimo libro il poeta trova il modo per ribadire il concetto.

Prima di leggere alcuni fondamentali brani dal dodicesimo libro è doveroso però spendere due parole nei confronti dell’eroe italico, Turno. È presentato sempre e solo come l’avversario di Enea e mai gli è stata concessa la fama che invece, secondo me, avrebbe meritato. Dimostrazione di ciò è l’assenza di figurazioni e sue rappresentazioni artistiche nel corso dei secoli: ho cercato figure di quadri che lo ritraessero, ma, al di fuori del duello con Enea, nulla è scaturito dalla ricerca accurata che ho fatto. Turno mi appare come un eroe poco noto e trascurato e mi chiedo il perché: cosa gli manca per essere considerato alla stregua di tutti gli altri personaggi omerici? Io lo accomuno, invece, al grande Ettore e mi appare come la sua rappresentazione virgiliana. Turno è un combattente di grande valore, crede nei suoi diritti e li difende con tutte le sue forze, è in definitiva dalla parte della ragione: chi è questo intruso venuto dal mare che gli soffia il regno di Latino e la donna alla quale è da tempo promesso sposo? Purtroppo però nulla si può contro il fato: lui, che si fa prendere dalla furia solo in battaglia, ma sempre in suo pieno diritto, valoroso combattente come Ettore, dovrà perire per la gloria di un altro. Ma questo altro è Enea, eroe molto più umano di Achille, che lo avrebbe risparmiato se non avesse commesso un errore imperdonabile: quello di aver ucciso Pallante indossandone il balteo. 

Turno e Latino (dal dodicesimo libro, Traduzione Annibal Caro)


Turno, poscia che vede afflitti e domi
già due volte i Latini, e non pur scemi
di forze, ma di speme e di baldanza,
da lui farsi rubelli, e che a lui solo
ognun rivolto in tanto affare attende
le pruove, le promesse e i vanti suoi,
furïoso, implacabile, inquïeto
arde, s'inanimisce, e si rinfranca
prima in se stesso. Qual massíla fera
ch'allor d'insanguinar gli artigli e il ceffo
disponsi, allor s'adira, allor si scaglia
vèr chi la caccia, che da lui si sente
gravemente ferita; e già godendo
de la vendetta, sanguinosa e fiera
con le iube s'arruffa, e con le rampe
frange l'infisso tèlo e graffia e rugge:
cosí la vïolenza era di Turno
accesa, impetüosa e furibonda;
e cosí conturbato appresentossi
al re davanti, e disse: «Indugio, o scusa
piú non fa Turno: e piú non ponno i Teucri
da quel ch'è patteggiato, e stabilito,
se non se per viltà, ritrarsi omai.
Eccomi in campo: ecco parato e pronto
sono al duello. Or fa', padre, che 'l patto
sia fermo e rato e sacro; e i sacrifici
e 'l giuramento appresta. Oggi, signore,
sii certo ch'io con le mie mani a morte
questo de l'Asia fuggitivo adduco,
e 'l difetto di tutti io solo ammendo
(stiansi pure a vedere i tuoi Latini);
o ch'ei vincendo fia padrone a voi,
e marito a Lavinia». A cui Latino
col cor sedato in tal guisa rispose:
«Giovine valoroso, al tuo valore,
a la ferocia tua che tanto eccede
ne l'armi, io deferisco. E tu dovrai
appagarti di me, s'io, d'ogni cosa
temendo, con ragione e con maturo
consiglio in tutti i casi inveglio e curo
che 'l mio stato si salvi e la tua vita.
A te del vecchio Dauno erede e figlio,
seggio e regno non manca, oltre a le terre
di cui tu fatto hai da te stesso acquisto
per forza d'armi. Oro, favori e gradi
da Latino avrai sempre; e maritaggi
e donne d'alto affar son per lo Lazio,
e per le terre di Laurento assai.
Ma soffri ch'io ti parli, e senti, e nota
poscia quel ch'io dirò: che dirò vero,
ben che noia ti sia. Fatal divieto
mi proibiva, e gli uomini e gli dèi
m'avean vaticinando in molte guise
denunzïato, che mia figlia a nullo
io maritassi di color che chiesta
me l'avean prima. E pur dall'amor vinto
che ti port'io, dal parentado astretto
c'ho con la casa tua, mosso dal pianto
e da le preci de la donna mia,
dandola a te mi sono al fato opposto:
ho rotto fede al genero; ho con lui
presa non giusta e non sicura guerra.
Da indi in qua tu stesso, tu che primo
soffri tante fatiche e tanti affanni,
hai veduto in che rischi, in che travagli
siam noi caduti; ché due volte rotti
in due sí gran battaglie, in questo cerchio
ne siam rinchiusi a sostentare a pena
la speranza d'Italia. Il Tebro è caldo
del nostro sangue. I campi son già bianchi
de le nostr'ossa. Ed io, folle, a che torno
tante fïate al precipizio mio?
Chi cosí da me stesso mi sottragge?
Se, Turno estinto, io nel mio regno deggio
i Troiani accettar, ché non gli accetto
or ch'egli è vivo e salvo? e ché non pongo
fine a la guerra, a la ruina espressa
del mio regno e de' miei? Che ne diranno
i Rutuli parenti? che diranne
Italia tutta, quando a morte io lasci
(voglia Dio che non sia) gir un che tanto
ama la parentela e 'l sangue mio?
Rimira de la guerra come vana
sia la fortuna. Abbi pietà del vecchio
Dauno tuo padre, che da te lontano
in Ardea se ne sta mesto e dolente».
Turno a questo parlar nulla si mosse
de la ferocia sua: crebbe piú tosto
il suo furore; e lo rimedio stesso
gli aggravò 'l male. Ei, come pria poteo
formar parola, in tal guisa rispose:
«Nulla per conto mio di me ti caglia,
signor benigno: anzi, ti prego, in grado
prendi ch'io per la lode e per l'onore
patteggi con la morte. Ed anch'io, padre,
ho le mie mani; ed anco il ferro mio
ha taglio e punta, e fa ferita e sangue.
Non sempre avrà, cred'io, la madre a canto
che di nube lo cuopra e lo trafugga
come vil femminella, e di vane ombre
seco s'involva». 

[...]

Turno ed Enea si preparano al duello (dal dodicesimo libro, Traduzione Annibal Caro)

[...]

Detto cosí, vèr la magion s'invia
rapidamente; addur si fece avanti
i suoi cavalli, e le fattezze e 'l fremito
notando, se ne gode, e ne concepe
speme e vittoria: ché di razza usciti
eran già d'Orizía, da cui Pilunno
ebbe giumente e corridori in dono,
che di candor la neve, e di prestezza
superavano il vento. Avean d'intorno
i valletti e gli aurighi che palpando,
forbendo e vezzeggiando, in varie guise
gli facean lieti, baldanzosi e fieri.
Fatte poscia venir l'armi, si veste
la sua corazza d'oricalco e d'oro
e dentro vi s'adatta e vi si vibra
con la persona. Imbracciasi lo scudo,
pruovasi l'elmo; e la vermiglia cresta
squassando, il brando impugna, il fido brando
da lo stesso Vulcano al padre Dauno
temprato in Mongibello a tutte pruove.
Alfine un'asta poderosa e grave,
ch'appo un'alta colonna era appoggiata
in mezzo de la casa, in man si pianta,
spoglio d'Àttore aurunco. E poiché l'ebbe
brandita e scossa: «Asta, - gridando disse, -
ch'a le mie fazïoni unqua non fosti
chiamata indarno, ora al maggior bisogno
da te soccorso imploro. Il grande Attòre
armasti in prima, or sei di Turno in mano.
Dammi che 'l corpo atterri, e la corazza
dischiodi, e 'l petto laceri e trapassi
di questo frigio effeminato eunuco;
dammi che 'l profumato, inanellato,
col ferro attorcigliato zazzerino
gli scompigli una volta, e ne la polve
lo travolga e nel sangue». In cotal guisa
dicendo, infurïava, ardea nel volto,
scintillava negli occhi, orribilmente
fremea, qual mugghia il toro allor che irato
si prepara a battaglia, e l'ira in cima
si reca de le corna, indi l'arruota
a qualche tronco, e 'l tronco e l'aura in prima
ferendo, alto co' piè sparge l'arena
e del futuro assalto i colpi impara.
Da l'altro canto Enea, non men feroce

ne l'armi di sua madre, al fiero Marte
s'inanima e s'accinge, e del partito
che gli era per compor la guerra offerto,
si rallegra, l'accetta; e i suoi compagni
e 'l suo figlio assicura, or di se stesso
la franchezza mostrando, or le venture
de' fati rammentando e le promesse.
Indi con la risposta al re Latino
manda chi la disfida e 'l patto accetti,
e del patto i capitoli e le leggi
stabilisca e confermi. 

 [...]

Intervento di Giunone (dal dodicesimo libro, Traduzione Annibal Caro)
[...]

E non dal campo lunge
sedea Giuno in un colle, Albano or detto,
ch'allor né d'Alba il nome avea, né 'l pregio
né i sacrifici. In questo monte assisa
vedea de' Laürenti e de' Troiani
l'accolte genti, e di Latino il seggio.
Ivi la dea di Turno a la sirocchia,
che dea de' laghi era e de' fiumi anch'ella,

disse cosí: «Ninfa, de' fiumi onore,
sovr'ogni ninfa a me gioconda e cara,
tu sai come te sola ho preferita,
e come volontier del cielo a parte
meco t'ho posta. Ascolta i tuoi dolori,
perché di me dolerti unqua non possa.
Finché di Lazio la fortuna e 'l fato
me l'han concesso, io prontamente e Turno
e la tua terra e i tuoi sempre ho difeso.
Or veggio questo giovine a duello
con disegual destino esser chiamato:
veggio il dí della Parca e la nemica
forza che gli è vicina. Io questo accordo,
questa pugna veder con gli occhi miei
per me non posso. Tu, se cosa ardisci
in pro del tuo germano, ora è mestiero
che tu l'adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fallo: e chi sa che 'l misero non cangi
ancor fortuna?» A pena avea ciò detto
che Iuturna gemendo e lagrimando
tre volte e quattro il petto si percosse.
A cui Giuno soggiunse: «E' non è tempo
da stare in pianti. Affretta; e da la morte

scampa, se scampar puossi, il tuo fratello,
o turbando l'accordo, o suscitando
nuova cagion di mischia e di tumulto.
Io son che l'impongo, e te n'affido».
Con questo la lasciò sospesa e mesta,
e d'amara puntura il cor trafitta.


[...]

La ninfa compie il compito affidatole in modo egregio: si sostituisce al conduttore del carro di Turno e in tal modo riesce sempre a portarlo lontano dal teucro.

Ferimento di Enea (dal dodicesimo libro, Traduzione Annibal Caro)

[...]
 Enea senz'elmo in testa, infra le genti
la disarmata destra alto levando,
e discorrendo, e richiamando i suoi:
«Dove, dove ne gite? Che tumulto, -
dicea, - che furia, che discordia è questa
cosí repente? Oh trattenete l'ire;
oh non rompete. Il patto è stabilito;
l'accordo è fatto. Solo a me concesso
è ch'io combatta. A me sol ne lasciate
la cura e 'l carco. Io, non temete, io solo 

il patto vi ratifico e vi fermo
con questa sola destra; e Turno a morte
di già mi si promette, e mi si deve
da questi sacrifici». In questa guisa
gridava il teucro duce; ed ecco intanto
venir d'alto stridendo una saetta;
non si sa da qual mano, o da qual arco
si dipartisse. O caso, o dio che fosse
che tanta lode a' Rutuli prestasse,
l'onor se ne celò, né mai s'intese
chi del ferito Enea vanto si desse.

[...]
 Mentre cosí vincendo e d'ogni parte
con tanta strage il campo trascorrendo
se ne va Turno; Enea dal fido Acate,
da Memmo e dal suo figlio accompagnato
(come da la saetta era ferito),
sovr'un'asta appoggiato, a lento passo
verso gli alloggiamenti si ritragge.
Ivi contro a lo stral, contro a se stesso
s'inaspra e frange il tèlo, di sua mano
ripesca il ferro. e poi che indarno il tenta,
comanda che la piaga gli s'allarghi
con altro ferro, e d'ogn'intorno s'apra,
sí che tosto dal corpo gli si svelga,
e tosto alla battaglia se ne torni.
Comparso intanto era a la cura Iapi
d'Iäso il figlio, sovr'ogn'altro amato
da Febo. E Febo stesso, allor ch'acceso
era da l'amor suo, la cetra e l'arco
e 'l vaticinio, e qual de l'arti sue
piú l'aggradasse, a sua scelta gli offerse.
Ei che del vecchio infermo e già caduco
suo padre la salute e gli anni amava,
saper de l'erbe la possanza, e l'uso
di medicare elesse, e senza lingua
e senza lode e del futuro ignaro
mostrarsi in pria, che non ritorre a morte
chi li diè vita. A la sua lancia Enea
stava appoggiato, e fieramente acceso
fremendo, avea di giovani un gran cerchio
col figlio intorno, al cui tenero pianto
punto non si movea. Sbracciato intanto
e con la veste e la cintura avvolta,
qual de' medici è l'uso, il vecchio Iapi
gli era d'intorno; e con diverse pruove
di man, di ferri, di liquori e d'erbe
invan s'affaticava, invano ogn'opra,
ogn'arte, ogni rimedio, e i preghi e i vóti
al suo maestro Apollo eran tentati.

De la battaglia rinforzava intanto
lo scompiglio e l'orrore; e già 'l periglio
s'avvicinava; già di polve il cielo,
di cavalieri il campo era coverto;
che fin dentro a' ripari e fra le tende
ne cadevano i dardi; e già da presso
s'udian de' combattenti e de' caduti
i lamenti e le grida. Il caso indegno
d'Enea suo figlio, e 'l suo stesso dolore
in sé Ciprigna e nel suo cor sentendo,
ratto v'accorse, e fin di Creta addusse
di dittamo un cespuglio, che recente
di sua man còlto, era di verde il gambo,
di tenero le foglie, e d'ostro i fiori
tutto consperso e rugiadoso ancora.
Quest'erba per natura ai capri è nota,
e da lor cerca allor che 'l tergo o 'l fianco
ne van di dardo o di saetta infissi.
Con questa Citerèa per entro un nembo
ne venne ascosa, e col salubre sugo
d'ambrosia e d'odorata panacea
mischiolla, e poscia i tiepidi liquori
ch'eran già presti in tal guisa ne sparse,
che nïun se n'avvide. E n'ebbe a pena
la piaga infusa, che l'angoscia e 'l duolo
cessò repente, il sangue d'ogni parte
de la ferita in fondo si raccolse,
e seguendo la mano, il ferro stesso
come da sé n'uscio. Spedito e forte,

e nel pristino suo vigor ridotto,
Enea dritto levossi.

[...]

Lo stratagemma di Giunone per continuare la guerra da lei scatenata non può più durare e dopo un  colloquio con Giove si convincerà che l'ora in cui il destino deve compiersi è ormai giunta. Abbandoneà ogni inganno e il duello finale tra i due grandi guerrieri potrà aver luogo.

Giove e Giunone  (dal dodicesimo libro, Traduzione Annibal Caro)
 [...]
 Stava Giuno a mirar questa battaglia
sovr'un nembo dorato, allor che Giove
cosí le disse: «E che faremo alfine,
donna? E che far ci resta? Io so che sai,
e tu l'affermi, che da' fati Enea
si deve al cielo, e che tra noi s'aspetta.
Ch'agogni piú? Che macchini, e che speri?
A che tra queste nubi or ti ravvolgi?
Convenevol ti sembra e degna cosa
che mortal ferro a vïolar presuma
un che fia Divo? E ti par degno e giusto
ch'a Turno in man la spada si riponga
quando egli stesso la si tolse e ruppe?
E l'avria senza te Iuturna osato,
non che potuto, a crescer forza ai vinti?
Togliti giú da questa impresa omai,
togliti; e me, che te ne prego, ascolta:
né soffrir che 'l dolor, ch'entro ti rode,
cangiando il dolce tuo sereno aspetto,
sí ti conturbi, e sí spesso cagione
mi sia d'amaritudine e di noia.
Quest'è l'ultima fine. Assai per mare,
assai per terra hai tu fin qui potuto
a vessare i Troiani, a muover guerra
cosí nefanda, a scompigliar la casa
del re Latino, e 'ntorbidar le nozze,
sí come hai fatto. Or piú tentar non lece;
ed io tel vieto». E qui Giove si tacque.
Abbassò 'l volto, ed umilmente a lui
cosí Giuno rispose: «Io, perché noto
m'è, signor mio, questo tuo gran volere,
ancor contra mia voglia abbandonata
ho l'aíta di Turno, e qui da terra
mi son levata. Che se ciò non fosse,
me cosí solitaria non vedresti,
com'or mi vedi, in queste nubi ascosa,
e disposta a soffrir tutto ch'io soffro
degno e non degno; ma di fiamme cinta
mi rimescolerei per la battaglia
a danno de' Troiani. Io, solo in questo,
tel confesso, a Iuturna ho persüaso
ch'al suo misero frate in sí grand'uopo
non manchi di soccorso, e ch'ogni cosa
tenti per la salute e per lo scampo
de la sua vita. E non però le dissi
giammai che l'arco e le saette oprasse
incontr'Enea. Tel giuro per la fonte
di Stige, quel ch'a noi celesti numi
solo è nume implacabile e tremendo.
Ora per obbedirti e perché stanca
di questa guerra e fastidita io sono,
cedo e piú non contendo. E sol di questo
desio che mi compiaccia (e questo al fato
non è soggetto), che per mio contento,
per onor de' Latini, per grandezza
e maestà de' tuoi, quando la pace,

Annibale Carracci, 1600 - 1605, Roma, Galleria Borghese
l'accordo e 'l maritaggio fia conchiuso
(che sia felicemente), il nome antico
di Lazio e de le sue native genti,
l'abito e la favella non si mute:
né mai Teucri si chiamino e Troiani.
Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani
sian d'Alba i regi, e la romana stirpe
d'italica virtú possente e chiara.
Poiché Troia perí, lascia che pèra
anco il suo nome». A ciò Giove sorrise,
e cosí le rispose: «Ah! sei pur nata
ancor tu di Saturno, e mia sorella,
e consenti che l'ira e l'acerbezza
cosí ti vinca? Or, come follemente
la concepisti, il cor te ne disgombra
omai del tutto. E tutto io ti concedo

che tu domandi, e vinto mi ti rendo.
La favella, il costume e 'l nome loro
ritengansi gli Ausoni, e solo i corpi
abbian con essi i Teucri uniti e misti.
D'ambedue questi popoli i costumi,
i riti, i sacrifici in uno accolti,
una gente farò ch'ad una voce
Latini si diranno. E quei che d'ambi
nasceran poi, sovr'a l'umana gente,

si vedran di possanza e di pietade
girne a' celesti eguali; e non mai tanto
sarai tu cólta e riverita altrove».

[...] 

Duello tra Enea e Turno  (dal dodicesimo libro, Traduzione Annibal Caro)

Il destino di Turno è segnato. Enea, il pio eroe, dopo averlo battutto gli avrebbe anche risparmiato la vita ma, vedendo il balteo di Pallante ornare il nemico, preso dall'ira (anche lui!) in nome di Pallante lo uccide.
 [...]
 Mosse la Dira, e di tempesta in guisa
ch'impetüosamente trascorresse,
volò come saetta che da Parto,
e da Cidone avvelenata uscisse,
e, non vista, ronzando e l'ombre aprendo,
ferita immedicabile portasse.
Giunta là 've di Turno e de' Troiani
vide le schiere, in forma si ristrinse
subitamente di minore augello,
ed in quel si cangiò che da' sepolcri
e dagli antichi e solitari alberghi
funesto canta, e sol di notte vola.
Tal divenuta, a Turno s'appresenta,
gli ulula, gli svolazza, gli s'aggira
molte volte d'intorno; e fin con l'ali
lo scudo gli percuote, e gli fa vento.
Stupí, si raggricciò, muto divenne
Turno per la paura. E la sorella,
tosto che lo stridor sentinne e l'ali,
le chiome si stracciò, graffiossi il volto,
e con le pugna il petto si percosse:
«Or che - dicendo - omai, Turno, piú puote
per te la tua germana? E che piú resta
a far per lo tuo scampo, o per l'indugio
de la tua morte? E come a cotal mostro
oppor mi posso io piú? Già già mi tolgo
di qui lontano. A che piú spaventarmi?
Assai di téma, sventurato augello,
nel tuo venir mi désti. E ben conosco
a i segni del tuo canto e del tuo volo
quel che m'apporti. E non punto m'inganna
il severo precetto del Tonante.
E perché vita mi concesse eterna?
Perché 'l morir mi tolse? Acciò morendo
non finisse il mio duolo? Acciò compagna
gir non potessi al misero fratello?

[...]
Intanto il suo gran tèlo Enea vibrando
col nimico s'azzuffa, e fieramente
lo rampogna, e gli dice: «Or qual piú, Turno,
farai tu mora, o sotterfugio, o schermo?
Con l'armi, con le man, Turno, e da presso,
non co' piè si combatte e di lontano.
Ma fuggi pur, dileguati, trasmutati,
unisci le tue forze e 'l tuo valore,
vola per l'aria, appiattati sotterra,
quanto puoi t'argomenta e quanto sai,
che pur giunto vi sei». Turno, squassando
il capo: «Ah! - gli rispose - che per fiero
che mi ti mostri, io de la tua fierezza,
orgoglioso campion, punto non temo,
né di te: degli dèi temo, e di Giove,
che nimici mi sono e meco irati».
Nulla piú disse; ma rivolto, appresso
si vide un sasso, un sasso antico e grande
ch'ivi a sorte per limite era posto
a spartir campi e tôr lite a' vicini.
Era sí smisurato e di tal peso,
che dodici di quei ch'oggi produce
il secol nostro, e de' piú forti ancora,
non l'avrebbon di terra alzato a pena.
Turno diegli di piglio, e con esso alto
correndo se ne gia verso il nimico,
senza veder né come indi il togliesse,
né come lo levasse, né se gisse,
né se corresse. Disnervate e fiacche
gli vacillâr le gambe, e freddo e stretto
gli si fe' 'l sangue. Il sasso andò per l'aura
sí che 'l colpo non giunse, e non percosse.
Come di notte, allor che 'l sonno chiude
i languid'occhi a l'affannata gente,
ne sembra alcuna volta essere al corso
ardenti in prima, e poi freddi in su 'l mezzo,
manchiam di lena sí ch'i piè, la lingua,
la voce, ogni potenza ne si toglie
quasi in un tempo: cosí Turno invano
tutte del suo valor le forze oprava
da la Dira impedito. Allora in dubbio
fu di se stesso, e molti per la mente
gli andaro e vari e torbidi pensieri.
Torse gli occhi a' suoi Rutuli, e le mura
mirò de la città: poscia sospeso
fermossi, e pauroso; sopra il tèlo
vistosi del gran Teucro, orror ne prese,
non piú sapendo o dove per suo scampo
si ricovrasse, o quel che per suo schermo,
o per l'offesa del nimico oprasse.
Mentre cosí confuso e forsennato
si sta, la fatal asta Enea vibrando,
apposta ove colpisca, e con la forza
del corpo tutto gli l'avventa e fère.
Macchina con tant'impeto non pinse
mai sasso, e mai non fu squarciata nube
che sí tonasse. Andò di turbo in guisa
stridendo, e con la morte in su la punta
furïosa passò di sette doppi
lo rinforzato scudo; e la corazza
aprendo, ne la coscia gli s'infisse.

 Diè del ginocchio a questo colpo in terra
Turno ferito. I Rutuli gridaro:
e tal surse fra lor tumulto e pianto,
che 'l monte tutto e le foreste intorno
ne rintonaro. Allor gli occhi e la destra
alzando in atto umilmente rimesso,
e supplicante: «Io - disse - ho meritato
questa fortuna; e tu segui la tua;
ché né vita, né vènia ti dimando.
Ma se pietà de' padri il cor ti tange
(ché ancor tu padre avesti, e padre sei),
del mio vecchio parente or ti sovvenga.
E se morto mi vuoi, morto ch'io sia,
rendi il mio corpo a' miei. Tu vincitore,
ed io son vinto. E già gli Ausoni tutti
mi ti veggiono a' piè, che supplicando
mercé ti chieggio. E già Lavinia è tua;
a che piú contra un morto odio e tenzone?»



Dipinto di Luca Giordano


Enea ferocemente altero e torvo
stette ne l'arme, e vòlti gli occhi a torno,
frenò la destra; e con l'indugio ognora
piú mite, al suo pregar si raddolciva;
quando di cima all'omero il fermaglio
del cinto infortunato di Pallante
negli occhi gli rifulse. E ben conobbe
a le note sue bolle esser quel desso,
di che Turno quel dí l'avea spogliato,
che gli diè morte; e che per vanto poscia
come nimica e glorïosa spoglia
lo portò sempre al petto attraversato.
Tosto che 'l vide, amara rimembranza
gli fu di quel ch'ei n'ebbe affanno e doglia;
e d'ira e di furore il petto acceso,
e terribile il volto: «Ah! - disse - adunque
tu de le spoglie d'un mio tanto amico
adorno, oggi di man presumi uscirmi,
sí che non muoia? Muori; e questo colpo
ti dà Pallante, e da Pallante il prendi.
A lui, per mia vendetta e per sua vittima,
te, la tua pena, e 'l tuo sangue consacro».

E, ciò dicendo, il petto gli trafisse.
Allor da mortal gelo il corpo appreso
abbandonossi; e l'anima di vita
sdegnosamente sospirando uscio.


L'Eneide è un poema incompiuto? Io penso di no e il finale mi pare perfetto: è un'interruzione improvvisa ma carica di pathos. Ormai tutto è stato detto e si è completato il disegno del fato. Virgilio non era soddisfatto della sua opera, considerava che occorressero delle revisioni e fece richiesta che alla sua morte, se non avesse fatto in tempo, venisse bruciata. Per fortuna non fu così: lode al suo amico Vario Rufo, che non rispettò le ultime volontà del poeta consentoci così di godere di questo capolavoro. Grazie, Vario!

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